«Non è l’Iraq, non è l’Afghanistan. Stiamo parlando di un raid limitato, proporzionato, che è un messaggio non solo ad Assad, ma anche ad altri che potrebbero pensare di usare armi chimiche anche in futuro». Barack Obama incontra i parlamentari e continua a raccontare la versione soft di un ennesimo impegno bellico che tutti sanno sarà assai più ‘coinvolgente’ e pericoloso. Il presidente USA sa bene che non solo il mondo intero, ma il suo stesso paese e i suoi stessi sostenitori non credono più alla versione trita e ritrita della guerra lampo, degli USA come ‘gendarme internazionale’, portatore di pace e stabilità. I disastri della Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia stanno lì a ricordarlo ogni santo giorno, anno dopo anno. Più che il gendarme della stabilità e della legalità internazionale gli Stati Uniti appaiono sempre più come una gigantesca ditta di demolizioni su scala mondiale; all’egemonia di qualche anno fa hanno dovuto rinunciare, visto l’emergere di nuovi e numerosi soggetti concorrenti, ed hanno ripiegato su una ‘supremazia’ militare che usano spesso e volentieri, ma come elefanti in una cristalleria. L’obiettivo sembra quello di togliere di mezzo un paese dopo l’altro, di spianare città e apparati statali, ripiombandoli nel Medio Evo e poi lasciandoli al loro destino. Ciò che non si può controllare è meglio sfasciare, affinché altri non possano utilizzarlo contro la declinante potenza di Washington.
Un modello di intervento applicato sistematicamente guerra dopo guerra, aggressione dopo aggressione, e che non sfugge anche a molti dei partner storici degli Stati Uniti. Il che spiega il ‘no’ del parlamento di Londra, lo scetticismo trasversale in Francia, il nein tondo tedesco, gli strali del Vaticano e addirittura gli avvertimenti di Ban Ki Moon.
Hai voglia a parlare di ‘guerra lampo’. Obama in realtà chiede al Congresso l’autorizzazione per una aggressione militare su vasta scala che duri almeno tre mesi. Pur continuando a raccontare al mondo che si tratterà di una passeggiata di tre giorni, senza conseguenze.
Il presidente – e Nobel per la Pace - si è detto «fiducioso» di riuscire ad ottenere l’autorizzazione affinché gli Stati Uniti possano «degradare» la capacità di Assad di ricorrere a sostanze nocive (!) e ha spiegato che un attacco al regime di Damasco rientra in una «più ampia strategia per rafforzare l’opposizione (siriana) e nelle iniziative per aumentare la pressione diplomatica ed economica richiesta per consentire alla Siria di liberarsi finalmente dalla terribile guerra civile in corso da due anni e mezzo». Per venire incontro ai dubbi e alle preoccupazioni sia di molti democratici sia dei repubblicani, nella mozione interventista che chiederà al Congresso di votare ha fatto inserire un esplicito riferimento al carattere ‘breve’ dell’intervento militare e all’esclusione di ogni possibile intervento di terra. Una esplicita limitazione allo spazio di manovra di Obama – che non è detto che non ne sia felice - che ritocca il testo inviato dal Presidente al Congresso sabato, criticato da molti parlamentari e analisti perché ‘troppo vago’.
Dopo l’intesa raggiunta dai leader dei due partiti all’interno della commissione Affari esteri del Senato, conseguenza del si ottenuto dal Presidente della Camera dei Rappresentanti - il repubblicano John Boehner - la bozza di risoluzione che autorizza l’intervento militare contro la Siria prevede ora un limite di 60 giorni per l'operazione, con la possibilità di una sola proroga di altri 30 giorni previa nuova approvazione da parte del Congresso. Se oggi il testo passerà, come è probabile, l’esame della Commissione, verrà trasmesso all’Aula dal 9 settembre, giorno in cui i lavori parlamentari riprenderanno dopo la pausa estiva.
Nelle prossime ore Obama dovrà vedersela con il no di Mosca e di Pechino al G20 in programma a San Pietroburgo. E anche il segretario dell’Onu Ban Ki-moon torna ad avvertire l’inquilino della Casa Bianca: «L’attacco degli Stati Uniti per punire il presunto uso di armi chimiche da parte della Siria potrebbe scatenare altri tumulti» ha spiegato in una conferenza stampa dal Palazzo di vetro di New York, prima di partire per la Russia.
La debolezza e l’irresponsabilità degli Stati Uniti è sotto gli occhi di tutti. E il rischio che un ‘incidente’ scoperchi il vaso di Pandora anche. In Siria c'è una base militare russa, quella di Tartus, ed è noto a chi si intende di Medio Oriente che il destino di Siria e Libano è unico. Se è vero che per molti di coloro che sostengono l'aggressione alla Siria il vero obiettivo è l'Iran, é ovvio che la possibilità che Damasco diventi la Sarajevo del XXI secolo non è affatto remota
Nelle prossime ore Obama dovrà vedersela con il no di Mosca e di Pechino al G20 in programma a San Pietroburgo. E anche il segretario dell’Onu Ban Ki-moon torna ad avvertire l’inquilino della Casa Bianca: «L’attacco degli Stati Uniti per punire il presunto uso di armi chimiche da parte della Siria potrebbe scatenare altri tumulti» ha spiegato in una conferenza stampa dal Palazzo di vetro di New York, prima di partire per la Russia.
La debolezza e l’irresponsabilità degli Stati Uniti è sotto gli occhi di tutti. E il rischio che un ‘incidente’ scoperchi il vaso di Pandora anche. In Siria c'è una base militare russa, quella di Tartus, ed è noto a chi si intende di Medio Oriente che il destino di Siria e Libano è unico. Se è vero che per molti di coloro che sostengono l'aggressione alla Siria il vero obiettivo è l'Iran, é ovvio che la possibilità che Damasco diventi la Sarajevo del XXI secolo non è affatto remota