Viaggio agli inferni del secolo
I
Un servizio difficile
Un fattorino entrò nel mio ufficio e disse che il direttore desiderava parlarmi. Erano le dieci e mezzo del mattino, a quell’ora il direttore certamente non era ancora al giornale.
«Il direttore è già venuto?» chiesi.
«Non credo. Di solito viene a mezzogiorno.»
«E a lei, chi le ha detto di chiamarmi?»
«Ha telefonato la segreteria di redazione.»
Curioso. Di solito al giornale le cose andavano molto più alla svelta, senza tante trafile di messaggi. Erano le dieci e mezzo di una delle solite mattinate grigie di Milano, da un momento all’altro poteva ricominciare a piovere.
A mezzogiorno circa il direttore arrivò, io mi presentai, era il 37 aprile, aveva ricominciato a piovere. Nel grande studio era accesa la luce.
Sorrise, mi fece accomodare, era molto benevolo.
Disse: «Caro Buzzati ma non la si vede quasi mai. A che debbo il piacere?».
«Ho saputo che lei mi cercava.»
«Io la cercavo? Qualcuno deve aver capito male. No, io non l’ho cercata. Ma son contento che lei oggi sia qui.»
Il direttore è sempre benevolo però alcune volte è più benevolo ancora e allora vuol dire che sta preparandosi qualche cosa. Tutti noi redattori entriamo in uno stato di vaga inquietudine quando il direttore è più amabile del solito.
Il direttore era seduto al suo grande scrittoio, tenuto quasi completamente sgombro di carte, come è tipico di chi ha molto da lavorare. Si passò lentamente una mano sulle labbra, in gesto di relaxation.
«Ah!» disse. «Ha ragione lei. Adesso mi ricordo. L’avevo difatti cercata. Ieri. Ma non era una cosa importante.»
«Qualche servizio in vista?»
«No, no, adesso non mi ricordo neanche.» Sembrava assorto in un suo diverso pensiero, fece una pausa e poi: «Dunque come va, Buzzati? È superfluo chiederlo, lei ha una bellissima cera».
Dove sarebbe andato a parare? Il telefono suonò.
«Pronto» egli disse. «Ciao... precisamente... perché?... anche la prossima settimana... Non c’è fretta, direi... l’importante è scegliere bene.»
Feci mostra di alzarmi, lui mi trattenne con un cenno. E continuò a telefonare:
«Può darsi... ma c’è servizio e servizio... In questo caso... no ancora no... ti dico di no... bravo, proprio lo stesso nome che avevo pensato io... (lungo silenzio)... all’occorrenza credo sia anche... naturalmente... Gli parlerò quanto prima... d’accordo... ciao caro.»
Parlando nella cornetta mi guardava ma senza partecipazione. Distrattamente, come se avesse guardato il muro o un mobile.
Apprensivo come sono, mi chiesi se non stesse parlando proprio di me, il caso si diverte spesso con tali giochetti. Ma nel suo sguardo mancava il riferimento personale. Guardava me distrattamente pensando ad altri che non me. Indossava un completo blu scuro, camicia bianca, cravatta bordeaux, era elegante.
Mise giù la cornetta. «Era Stazi da Roma» gentilmente mi informò. «Si parlava del nuovo posto di corrispondente da Cipro... Lei sa, vero, che pensiamo di mandare uno fisso a Cipro... almeno fino a quando...»
«Non sapevo.»
«Cosa ne pensa lei di Fossombroni?»
«Be’» risposi «io lo conosco poco. Mi sembra un ragazzo in gamba.»
«Ancora acerbo, però se ne potrà cavare qualcosa di buono.» A questo punto infilò i pollici nei bordi del panciotto, gesto un po’ vecchio stile, come chi decide finalmente di affrontare il problema. In atteggiamento di scherzo però, quasi il problema in realtà non esistesse.
«E allora, caro Buzzati?»
«Pensa a me per Cipro?»
Scoppiò a ridere di gusto. «A Cipro? No, non la vedo proprio a Cipro... Se mai, qualcosa di più, di più...»
Mi accomiatai. Però nell’atto di richiudere la porta, voltandomi per un istante indietro, attraverso lo spiraglio dei battenti, intravidi ancora il direttore. I suoi sguardi, che mi avevano accompagnato alla porta, continuavano a seguirmi, ma il volto, da sorridente che era, si era subitamente raggelato in una fissa concentrazione; non diversamente dal grande avvocato il quale vede allontanarsi il cliente con cui ha celiato fino allora, e sa che condannato sarà.
A questo punto seppi: l’avvertimento di cosa insolita e sospetta percepito nel messaggio del fattorino non era stato arbitrario; qualcosa stava preparandosi (lievitando) per me, forse contro di me, e non era semplicemente un lavoro nuovo, un incarico nuovo, un lontano viaggio, non era neppure un provvedimento o un castigo, era, lo presentivo, una decisione che poteva coinvolgere la mia vita.
«Ha fatto chiamare anche te?» mi domandò in quel mentre Sandro Ghepardi che, stazionando in corridoio, mi aveva visto uscire dalla stanza del direttore.
«Perché anch’io? Tu, sei stato chiamato?»
«Io? Tutti. Ghelfi, Damiani, Pospischil, Armerini. Tu solo mancavi.»
«Cosa succede?»
«Deve esserci in ballo una faccenda. E abbastanza misteriosa.»
«Perché?»
«Boh... Qui dentro c’è la febbre come quando...»
Si aprì la porta del direttore il quale comparve sulla soglia e in silenzio ci guardò.
«Ciao Ghepardi» dissi salutando il collega.
«Ciao.»
Affrettai il passo, discesi Io scalone e stavo per, allorché dall’alto una voce: signor Buzzati!
Mi voltai. La voce (ma non vedevo chi): «Il direttore il signor direttore il signor signor il signor direttore la desideraaaa!».
Fu il tonfo nella profondità delicata e dolente di me medesimo. Sentii che mi sfiorava la mano pelosa del destino.
Giù dalle scale, alle mie spalle, un passo precipitoso e ritmico, oh quel passo, io lo sapevo da quando ero bambino, che mi avrebbe preso e sbaragliato. Disse: «Il direttore la desidera».
Era seduto alla sua grande scrivania di direttore e mi guardava negli occhi.
Disse: «Buzzati, c’è una cosa».
«Un servizio? Dove?»
«Può darsi che...»
Tacque. Intrecciò le dita delle mani come per un momento difficile e importante. Io aspettavo.
«Può darsi... non mi faccio illusioni però... io stesso ne dubito.., si presenta forse l’occasione...»
«Di cosa?»
Si aggiustò sulla poltrona, partì deciso:
«Caro Buzzati per caso non vorrebbe farmi una bella inchiesta sui lavori della metropolitana?»
«... politana?» feci eco, sbalordito.
Accese una sigaretta dopo averne offerta una.
«Nei lavori della metropolitana» disse «avrebbero trovato... un operaio un certo Torriani... per caso, nel corso degli scavi... dalle parti di Sempione... beh, insomma...»
Io lo guardavo, io cominciavo a spaventarmi.
Chiesi: «Che cosa dovrei fare?».
Lui prosegui: «Per caso... durante gli scavi sotterranei di Milano... dice di aver trovato... aver trovato per caso...» sembrava esitasse, imbarazzato.
«Per caso...» incoraggiandolo.
«Trovato per caso» mi fissò terribilmente «... io stesso stento a crederlo...»
«Direttore, mi dica...» Non ne potevo più.
«La porta dell’inferno, dice di aver trovato... una specie di porticina.»
Si narra che personaggi grossi e fortissimi, di fronte a ciò che massimamente avevano desiderato nella vita, quando si presentò tremarono, diventando macilenti, piccoli e meschini.
Eppure io chiesi:
«E si può entrare?»
«Dicono.»
«L’inferno?»
«L’inferno.»
«Gli inferni?»
«Gli inferni.»
Ci fu un silenzio.
«E io?»
«Non è che una proposta... una semplice proposta...
mi rendo conto anch’io...»
«Nessun altro è al corrente?»
«Nessuno.»
«Noi come l’abbiamo saputo?»
«Combinazione. La moglie di quel Torriani è figlia di un nostro vecchio speditore.»
«Era solo quando ha fatto la scoperta?»
«No, c’era un altro.»
«E quest’altro ha parlato?»
«Sicuramente no.»
«Perché?»
«Perché l’altro è entrato a curiosare. E non ha fatto più ritorno.»
«E io dovrei?...»
«Ripeto, una semplice proposta... In fin dei conti, di queste faccende lei non è uno specialista?»
«Da solo?»
«Meglio. Da solo darà meno nell’occhio. Bisogna arrangiarsi. Lasciapassare non esiste. E il nostro giornale, di là, non ha nessuna conoscenza. Che noi si sappia, almeno.»
«Niente Virgilio?»
«No.»
«Ma quelli là come faranno a capire che io sono un semplice turista?»
«Arrangiarsi. Quel Torriani dice... lui ha appena dato una occhiata di là... dice che in apparenza è tutto come qui da noi, e gli uomini sono di carne ed ossa, mica come quelli di Dante. Vestiti come noi. E dice che è una città come le nostre con luce elettrica e automobili dimodoché confondersi mimetizzarsi sarà abbastanza facile, ma in compenso difficile sarà farsi riconoscere per forestieri...»
«Dico: e allora dovrei farmi arrostire?»
«Sciocchezze. Chi parla più di fuoco? Le ripeto: tutto in apparenza è come qui, comprese le case e i bar i cinema i negozi. Proprio il caso di dire che il diavolo non è poi così...»
«E... e il compagno di quel Torriani allora perché non è tornato?»
«Chissà... potrebbe essersi smarrito.., potrebbe non aver più trovato il passaggio per rientrare... potrebbe anche averci trovato gusto...»
«Poi un’altra cosa: perché proprio a Milano e in tutto il resto del mondo no?»
«Non è vero. Pare anzi che ce ne siano parecchie di queste porticine, parecchie in ogni città, solo che nessuno le conosce... o nessuno ne parla... Comunque lei ammetterà che giornalisticamente sarebbe un colpo formidabile.»
«Giornalisticamente... Ma chi ci crederà? Bisognerebbe documentarsi. Portare almeno delle fotografie...»
Annaspavo. Mi rendevo conto che la famosa porta stava aprendosi. Non potevo decentemente rifiutare, sarebbe stata una diserzione ignobile. Ma mi faceva paura.
«Senta, Buzzati, non anticipiamo le cose. Neanch’io sono poi del tutto persuaso. Ci sono parecchi punti oscuri, a parte l’inverosimiglianza complessiva... Perché non va a parlare con quel Torriani?»
Mi porse un foglio. C’era l’indirizzo.
II
I segreti della «MM»
Così andai a cercare quel Torriani, operaio agli scavi della Metropolitana Milanese, il quale risultava aver casualmente scoperto nel sottosuolo una piccola porta che immetteva all’Inferno.
Come mi aveva detto il direttore, la moglie del Torriani era figlia di un vecchio speditore del nostro giornale: perciò seppi l’indirizzo.
Egli si chiamava Furio Torriani, abitava in un casamento in via privata Sanremo 32 dalle parti di porta Vittoria, con la moglie e due bambini. Venne lui ad aprire.
«Si accomodi professore» disse indicando la porta del soggiorno «ma temo che...»
«Non sono professore» dissi. «Voglia scusare il
disturbo. Ho avuto l’incarico di...»
Era piuttosto alto e tarchiato. Quarant’anni circa. Abito di grisaglia, camicia bianca, mani magre e curate, un regolo calcolatore spuntava dal taschino della giacca.
Un operaio quello? Infatti operaio non era bensì perito industriale, assistente di una delle imprese appaltatrici degli scavi. Una chiara e imperativa faccia bassopadana, il sorriso facile, polsi grossi da pugilatore. Altro che uomo delle tenebre.
«Si accomodi... no è meglio su quella poltrona... la avverto subito che...»
«Aspetti a dire di no signor Torriani, noi vorremmo soltanto...»
Adesso rideva: «Non so neppure io come possa essersi diffusa una voce simile».
«Perché? Non è vero?» Un sollievo grandissimo mi prese. Allora era tutta una fandonia, e il servizio andava in fumo.
«È incredibile, mi creda. Io non ho parlato con nessuno, mia moglie non ha parlato con nessuno, solo Dio sa come si è sparsa la voce... E i particolari poi! Come di quel mio compagno che sarebbe entrato a curiosare e non avrebbe più fatto ritorno.»
«Chi sarebbe questo suo compagno?»
«Ma non esiste, non è mai esistito!»
«Scusi, signor Torriani, ma un granellino di verità ci deve pur essere, altrimenti...»
Mi fissò divertito: «Un granellino di verità? Ah, questa è magnifica!». E scoppiò in una delle sue salubri risate.
Allora mi alzai, ero deliziosamente leggero come quando si va dal medico con una maledetta paura e il medico dice che non è niente. Finalmente mi chiedevo come il mio direttore avesse potuto prendere sul serio una assurdità simile, come io stesso avessi potuto crederci. L’inferno a Milano? La porta dell’Ade nella capitale del miracolo economico? Avevo voglia di accendere una sigaretta.
«Non mi resta che chiedere scusa per il disturbo. Sa, il nostro dovere di giornalisti...»
«Per carità, nessun disturbo, anzi il piacere di aver fatto la sua conoscenza.»
In quel momento, girando gli sguardi, notai su di un tavolino una vecchia edizione della Divina Commedia illustrata dal Doré. Era aperta là dove si vedono da lontano Dante e Virgilio i quali, tra roccioni sinistri si avviano alla bocca nera dell’abisso.
Fu come un rintocco, come un uncino. Alle mie spalle la gradevole voce del Torriani che mi accompagnava alla porta:
«È stato di notte» disse. «Si lavorava a turni continuati. Era appena passata una escavatrice Grandhopper e dal taglio nella terra smottavano giù sassi e fango quando...»
«Dio mio, allora è vero?»
«Su su, professore, non è il caso di fare quella faccia. Se lei proprio ci tiene, le potrò mostrare il posto preciso.»
Benché naturalmente non credesse a una sola parola di quella storia, l’ingegner Roberto Vicedomini della Metropolitana Milanese, che è l’amabilità in persona, acconsenti ad accompagnare il Torriani e me alla stazione di piazza Amendola. Le piogge della Fiera campionaria erano finite e risplendeva una bellissima luna appena appena calante. L’orologio elettrico della piazza segnava le una e cinquanta minuti, ne mancavano dunque dieci all’ora fatale. Un inserviente aprì la porta in ferro della scala centrale e accese le luci.
Tutto laggiù nell’atrio sembrava pronto, da un momento all’altro ci si sarebbe potuti aspettare l’irrompere della folla affannata. Ma adesso c’era una impressionante solitudine.
«Bello» dissi tentando di darmi coraggio. «Trovo la sistemazione di un gusto perfetto.»
L’ingegnere Vicedomini si volse al Torriani con ironia: «E allora dove?».
L’assistente rispose: «In fondo alla banchina A».
L’ingresso e l’uscita dei viaggiatori sono controllati da tornelli e cancelletti. I tornelli di ingresso sono rotativi con tre pale a centoventi gradi. Il viaggiatore introduce il biglietto in una fessura. Un dispositivo elettronico controlla che il biglietto sia valido, lo annulla, libera la tornella e la blocca nuovamente passato il viaggiatore. L’introduzione di un biglietto non valido aziona una suoneria d’allarme.
Ma adesso i tornelli di ingresso non ruotavano né i biglietti venivano introdotti nella fessura, né i dispositivi elettronici controllavano, né si udivano suonerie d’allarme perché tutto ristagnava nell’attesa, la grande giostra non era ancora cominciata.
Scendemmo, si percorse la banchina fino all’estremità nord-occidentale. A circa due metri dal termine il Torriani puntò l’indice su uno dei pannelli di graniglia a macchie rosse e grigio scuro che rivestono fino a una certa altezza le pareti.
«Esattamente qui» disse. E non aveva più tanta voglia di ridere.
«Ma adesso è tutto chiuso, è tutto bloccato.»
«Questi pannelli si possono togliere facilmente. È previsto. Dietro, passa una quantità di cavi e può esserci bisogno di una riparazione. Vero, ingegnere?»
L’ingegnere assentì.
«Ma, dietro al pannello» dissi «questa famosa porticina sarà stata murata, immagino.»
«Per tre quarti» spiegò il Torriani. «In basso è stato sistemato uno sportello metallico, a carponi ci si può passare.»
L’ingegnere lo guardò fisso: «Caro Torriani, lei realizza la gravità di quanto sta dicendo?». «Penso di sì, ingegnere.»
Un silenzio sepolcrale e una assoluta immobilità regnavano nella stazione nuova di zecca. Solo dalla nera profondità della galleria dei treni giungeva a intermittenza un misterioso ronzio.
«E lei sostiene che qui esiste un passaggio, un cunicolo, un corridoio o il diavolo che vuole?»
«Esattamente.»
«E tutti quelli che lavoravano qui non si sono accorti di niente?»
«Certo che si sono accorti, ma hanno creduto fosse un antico camminamento come ce ne sono intorno al Castello Sforzesco. Io invece sono entrato a vedere.»
«Lei solo?»
«Sì. Tanto più che dopo un paio di metri una frana aveva ostruito quasi completamente il cunicolo e passare costava una certa fatica.»
«E di là?» chiese, più che mai scettico, l’ingegnere.
All’estremità di ogni banchina, lato provenienza treni, si hanno due telecamere con distanze focali diverse; una permette di vedere tutta la banchina, la seconda ingrandisce la zona più distante. La scelta tra le due telecamere è fatta, a seconda delle necessità, dal guardasala il quale ha due monitori, perennemente inseriti, uno per ogni banchina. Ma adesso il guardasala non faceva la scelta fra le due distanze focali. Perché il guardasala non c’era, non c’era ressa di viaggiatori, di viaggiatori ne esisteva solo uno il quale si preparava a partire per un paese troppo lontano.
«Dopo una ventina di metri» disse il Torriani «ho visto in fondo un po’ di luce. C’era una angusta scaletta che saliva in superficie.»
«E lei è salito?»
«Sissignore.»
«Dove è sbucato? In Fiera campionaria?»
«Era una strada che non avevo mai visto piena completamente di macchine. Ferme. Un tale ingorgo che non si muovevano più. Sui marciapiedi invece una folla che andava e veniva come se... Sa le formiche quando si dà un calcio al formicaio?»
«Tutto qui il suo inferno? Sarà stata una strada vicina che lei non conosceva.»
«Impossibile. E poi vede ingegnere?, erano le due di notte quando mi sono cacciato nel cunicolo e di là... di là era giorno chiaro. E quando sono tornato indietro, e al massimo erano passati dieci minuti, ho ritrovato la notte. Se non è l’inferno...»
«E se fosse il purgatorio invece? C’era puzza di zolfo? Ha visto le fiamme?»
«Niente fiamme. Il fuoco, piuttosto, era negli occhi di quegli sciagurati.»
L’ingegnere adesso pareva invelenito, quasi l’altro lo prendesse in giro: «Basta adesso. Vediamolo, questo sportellino. Si dia le mani d’attorno, caro il mio Torriani. C’è qui il nostro Buzzati ansioso, vero, di seguire le sue orme.»
Il Torriani si volse alle scale d’accesso. «Anselmoo!» gridò con voce di toro e le ampiezze sotterranee la ripercossero in eco cavernosa.
Di laggiù comparve immediatamente un tizio in tuta con una sacca di cuoio a tracolla.
Il Torriani gli fece un cenno. Quello sì era un operaio. Toccò il pannello ai margini, il pannello si mosse e si apri come un piccolo ponte levatoio. Comparvero le viscere, un’alta fascia di cavi rivestiti di corteccie rosse, gialle, nere, bianche, a seconda dei circuiti.
«Ecco» disse il Torriani indicando uno sportello di ferro al filo del pavimento. Era rotondo con cerniera in alto e tre forchette sporgenti in cui si innestavano tre bulloni snodati, come negli oblò delle navi.
«Ma questo è un banalissimo dotto di controllo per le cloache» esclamò l’ingegnere. «Su, Torriani, faccia aprire. Sentirete il rumore dell’acqua. E chissà che puzza.»
L’operaio svitò i tre galletti, dischiuse il portello.
Ci chinammo. Di là era buio fitto.
«Questo non è rumore di acqua» dissi.
«Altro che acqua» fece il Torriani soddisfatto.
L’ingegnere balbettò qualche cosa e si ritrasse. Confusione, imbarazzo, paura, forse.
Di che cosa era fatto il suono che veniva dalle profondità del cunicolo? Che cosa significava il terribile suono? In quel coro sconnesso e folle pareva ogni tanto di distinguere grida e parole umane fittissime (per una confessione fulminea in due tre disperati secondi dopo una lunga vita malvagia all’incombere inaspettato della morte?). O era il ruggito delle macchine, o il singulto delle macchine, o il lamento e il miserere delle vecchie accidentate intossicate macchine dell’uomo? Cateratta di orrende cose massicce e dure che con selvaggio scroscio precipitava macinando altre cose, tenere queste e dolenti.
«No, non ci vada» mi disse l’ingegnere con un filo di voce.
Oramai! Indossata la tuta, impugnata la torcia elettrica. Mi inginocchiai.
«Addio professore» disse il Torriani con un sorriso buono. «Mi scusi. Forse la colpa è mia. Forse dovevo tacere.»
Infilai la testa nel pertugio, avanzai strisciando. Il lontano coro divenne un rombo. Laggiù in fondo una punta di luce.
III
Le diavolesse
Il cunicolo terminava, dopo una ventina di metri, ai piedi di una stretta scala; e lassù c’era l’Inferno.
Dall’alto veniva una luce grigia ed opaca come di giorno. Era una sola rampa di una trentina di scalini. In cima, un cancelletto in ferro. Di là dal cancelletto passavano sagome di uomini e di donne, tutti camminavano in fretta, ne vedevo soltanto la parte superiore, le spalle, le teste.
Dall’alto non veniva frastuono di traffico ma un ininterrotto brusio, o meglio un sommesso rombo, con dentro, sparsi qua e là, piccoli colpi di clacson.
Col batticuore salii, raggiunsi il cancelletto, i passanti non mi badavano. Che strano Inferno, era gente come voi come me, avevano in apparenza la medesima compattezza corporea, i medesimi vestiti che si vedono da noi tutti i giorni.
Che avesse ragione l’ingegnere Vicedomini? Che fosse tutto uno scherzo, e io imbecille a bere una fandonia simile? L’inferno quello. Semplicemente un quartiere di Milano a me sconosciuto.
Eppure non si spiegava la stessa circostanza che aveva impressionato l’assistente Torriani: pochi minuti prima, nella stazione della Metropolitana, erano le due di notte e qui adesso era giorno. Oppure era tutto un sogno?
Guardai intorno. Esattamente la scena descritta dal Torriani: in cui non c’era niente, a prima vista, di infernale e diabolico. Tutto anzi assomigliava alle nostre esperienze quotidiane, più ancora: non c’era nessuna differenza.
Il cielo era il cielo grigio e bituminoso, che conosciamo fin troppo bene, fatto di fumo e di caligini, e di là dal funesto strato si sarebbe detto non ci fosse il sole bensì una lampada smisurata, una squallida lampada come le nostre, un gigantesco tubo al neon, tanto le facce degli uomini risultavano livide e stanche.
Anche le case erano come le nostre, ne vedevo di vecchie e di modernissime, dai sette ai quindici piani in media, né belle né brutte, come le nostre molto abitate, con quasi tutte le finestre accese, dietro le quali si scorgevano uomini e donne seduti al lavoro.
Rassicurante il fatto che le insegne dei negozi e i manifesti pubblicitari erano scritti in italiano e riguardavano
gli stessi prodotti che giornalmente pratichiamo.
La strada pure non aveva nulla di straordinario. Solo che era interamente stipata di automobili ferme, come appunto aveva descritto il Torriani.
Le automobili non erano ferme perché desiderassero restare ferme o per ordine di un semaforo. Esisteva
un semaforo infatti a una quarantina di metri, e stava dando luce verde. Le macchine erano semplicemente intasate per un gigantesco ingorgo che può darsi si propagasse all’intero corpo della città, non potevano andare né avanti né indietro.
Nell’interno delle automobili ferme stavano le persone, per lo più uomini soli. Anch’essi, non sembravano ombre bensì individui in carne ed ossa. Con le mani sul volante, immobili, sulle facce pallide una ottusa atonia come per effetto di stupefacenti. Essi non potevano uscire neppure se avessero voluto, tanto le macchine erano serrate le une sulle altre. Guardavano fuori, attraverso i finestrini, guardavano lentamente, con espressione di, anzi senza nessuna espressione. Ogni tanto qualcuno toccava il clacson, emetteva un flebile colpetto, senza fiducia, cosi, neghittosamente. Pallidi, svuotati, castigati e vinti. E più nessuna speranza.
Allora mi chiesi: è forse questo il segno che siamo veramente all’Inferno? O incubi del genere avvengono abitualmente anche nelle città dei vivi?
Non sapevo rispondere.
Certo, la fissità atona e perduta di quegli uomini imprigionati e inchiodati nelle loro automobili, accidenti che scena.
Una voce decisa al mio fianco: «Ben gli sta!».
Alta vestita di un tailleur grigio ferro stretto in vita, una donna sui quarant’anni, molto bella, osservava le automobili compiaciuta. Era ferma a mezzo metro da me, ne vedevo il profilo. Una faccia da statua greca, ferma, autoritaria, sicura di sé. Sorrideva.
Istintivamente le chiesi: «Perché?».
Non si volse neppure. «Hanno fatto coi clacson un baccano d’inferno per quasi un’ora» rispose. «Finalmente si sono domati, i maledetti.» Perfetta pronuncia italiana, solo con una leggera erre.
Dopodiché mi guardò. Occhi azzurri, come una corrente elettrica.
«Venuto su dalla scaletta?» mi chiese con ironia.
«Ma... io...»
«Avanti, signore, mi segua.»
In che stupido impiccio mi ero andato a mettere. Fossi stato zitto. La regina delle amazzoni aprì la porta a vetri di una casa. «Di qua, prego.»
Disse “prego” ma era peggio di un comando militare. Come potevo disubbidire, io intruso clandestino? Seguendola, avvertii un delicato profumo che ricordava l’ozono.
Mi guidò a un ascensore, entrammo. Nella cabina c’erano altre sette persone. Si stava stretti, sentii la pressione dei corpi, erano consistenti come il mio. Dunque non c’era nessuna differenza fra i dannati e noi vivi? Le stesse facce, gli stessi vestiti, la stessa lingua, gli stessi giornali, gli stessi rotocalchi, le stesse sigarette perfino (un tipo di ragioniere cavò infatti di tasca un pacchetto di nazionali super col filtro e ne accese una).
«Dove andiamo?» osai chiedere alla generalessa.
Manco mi rispose.
Si uscì al decimo piano. La donna spinse un uscio senza intestazioni. Mi trovai in una grande sala tipo ufficio con una parete tutta a vetri. Di fuori, il plumbeo panorama della città.
Da un capo all’altro della sala si stendeva un banco come per ricevere il pubblico. Di là, una decina di ragazze in grembiule nero e collo bianco di pizzo stavano lavorando chi alle macchine per scrivere, chi a delle curiose tastiere con tanti bottoni, chi a dei quadri di comandi elettrici (così almeno parvero a me incompetente).
Tutto aveva un aspetto di modernità, lusso ed efficienza. Dinanzi al banco, tre poltroncine di cuoio nero e un piccolo tavolo di vetro. Ma la arciduchessa non mi invitò a sedere.
«Entrato a curiosare?» mi domandò senza preamboli.
«Sa... solo un’occhiata... sono un giornalista...»
«Entrare, guardare, ficcare il naso, ascoltare, prendere appunti, vero? E poi filarsela senza pagare il dazio, vero?... No, signore, non è possibile... Chi entra da noi deve subire tutte le conseguenze fino in fondo, sarebbe troppo comodo altrimenti...» Poi chiamò: «Rosella! Rosella!».
Accorse una ragazzina sui diciotto, il volto ancora da bambina, il labbro superiore tirato in su dalla tensione della pelle giovanetta, gli occhi ingenui e stupefatti. Inferno fin che si vuole, pensai, ma non sarà poi questo gran disastro se popolato da bestiole simili.
«Rosella» ordinò la presidentessa «prendi un po’ le generalità del signore e controlla subito sullo schedario generale se per caso...»
«Senz’altro» fece la Rosella che evidentemente aveva capito al volo.
«Se per caso che cosa?» indagai, con una progressiva inquietudine.
La padrona rispose placida: «Se per combinazione lei è già registrato qui da noi...».
«Sono appena arrivato!»
«Non vuol dire. Spesso si dà il caso... Del resto non costa niente controllare.»
Diedi nome e cognome, la Rosella andò ad armeggiare sulla tastiera di un cofano metallico simile alle calcolatrici elettroniche. Ne uscì un ronzio. Quindi si accese un lumino rosso, si udì uno scatto e un cartoncino rettangolare color rosa planò in un piccolo cestello d’alluminio.
Pentesilea lo prese, parve soddisfatta.
«Me lo immaginavo... Appena l’ho vista giù in strada... Con quella faccia!...»
«Come sarebbe a dire?»
Incuriosite, altre tre ragazze oltre la Rosella si erano avvicinate al banco ed ascoltavano. Nessuna all’altezza della Rosella, ma poco meno: fresche, aggiornate, spiritose.
«Sarebbe a dire, caro signor Buzzati, che anche tu sei dei nostri, e da un pezzo anche.» Era passata al tu, subitamente.
«Io?»
La direttrice sventolò la scheda.
«Senta, signora» dissi. «Qui c’è un grosso equivoco. Io non so chi lei sia precisamente. Ma voglio essere sincero fino in fondo... E lei riderà, le verranno le lacrime dal ridere... Sa che cosa credevo? Sa che cosa mi avevano garantito?»
«Che cosa?»
«Che qui... che questo, insomma.., era l’Inferno» e risi con un certo sforzo.
«Non vedo che cosa ci sia da ridere.»
«Be’ evidentemente è stato tutto uno scherzo.»
«Scherzo?»
«Ma se sono tutti vivi qui. Lei non è viva forse? Quelle signorine non sono vive? E allora? L’Inferno non è nell’aldilà?»
«Chi l’ha detto? Dio non paga il sabato.»
Le quattro ragazze assistevano divertite, avevano nasi piccoli, sottili, intraprendenti.
Io tentavo di difendermi: «Io qui non ci sono stato mai. Come fate ad avere la scheda col mio nome?»
«Non sei mai stato in questa casa. Ma la città che vedi qui sotto tu la conosci molto bene.» Guardai. Non la riconoscevo.
«Milano, no?» disse. «E dove pensavi di essere?»
«Questa, Milano?»
«Certo, Milano. E anche Amburgo, e anche Londra, e anche Amsterdam, Chicago e Tokio nello stesso tempo. Mi meraviglio di te. Col mestiere che fai dovresti pur sapere che due mondi, tre mondi, dieci mondi possono... come dire?... possono coesistere nello stesso luogo, compenetrati uno nell’altro... Pensavo che tu la conoscessi questa storia.»
«E io... Io dunque sarei dannato?»
«Penso di sì.»
«Che cosa ho fatto di male?»
«Non lo so» disse. «Non ha importanza. Tu sei dannato perché sei fatto così . I tipi come te l’inferno se lo portano dentro fin da bambini...»
Io cominciavo ad aver paura.
«E lei, signora, chi sarebbe?»
Le ragazzine si misero a ridere. Lei pure. Ridevano in uno strano modo.
«E vorrai anche sapere, immagino, chi sono queste mie figliole. Vero che sono delle graziose bambine? Vero che ti piacciono? Vuoi che te le presenti?»
Si divertiva moltissimo.
«L’Inferno!» insisteva. «Vieni a darci un’occhiata, lo riconoscerai, no? Dovresti sentirti di casa.»
Mi afferrò per un braccio, mi spinse alla vetrata.
Vidi allora di sotto la città con una precisione meravigliosa, fino alle estreme lontananze. Declinando la opaca e livida luce del giorno, si erano illuminate le finestre. Milano, Detroit, Düsseldorf, Parigi, Praga, mescolate insieme in un delirio di pinnacoli e di abissi, sfolgoravano, e in questa immensa coppa di luce si agitavano gli uomini, questi microbi, incalzati dal galoppo del tempo. La spaventosa, la orgogliosa macchina da loro stessi costruita girava macinandoli ed essi non fuggivano anzi facevano ressa per buttarsi nel cavo degli ingranaggi.
La ispettrice mi toccò una spalla.
«Vieni di là. Le mie bambine vogliono farti vedere un grazioso giochetto.»
Anche le rimanenti impiegate che fino allora avevano badato al lavoro si affollarono intorno con squittii e risatine.
Mi condussero in una sala adiacente, qui c’erano vari apparati complicatissimi con alcuni schermi simili a televisori.
La adorabile Rosella afferrò la manopola di un’asta simile, in piccolo, alle leve dei cambi ferroviari. E cominciò un orribile esercizio.
IV
Le accelerazioni
Dalla grande vetrata della sala si dominava il panorama della mostruosa città. La quale era l’Inferno. Birmingham? Detroit? Sydney? Osaka? Krasnojarsk? Samarcanda? Milano?
Vedevo le formiche, i microbi, gli uomini uno per uno agitarsi nella infaticabile corsa: a cosa? a cosa? Correvano battevano scrivevano telefonavano discutevano tagliavano mangiavano aprivano guardavano baciavano spingevano pensavano stringevano inventavano bucavano pulivano sporcavano, vedevo le pieghe delle maniche le smagliature delle calze la curva delle spalle le rughe intorno agli occhi. Gli occhi vedevo, con quella luce dentro, fatta di bisogno, di desiderio, sofferenza, ansia, avidità, di lucro e di paura.
Dietro di me, appostate ai quadri di comando di strane macchine, stavano la potente donna che mi aveva prelevato e le sue ancelle.
Lei, la comandante, si accostò e mi disse: «Vedi?».
Dinanzi a me si stendeva a perdita d’occhio il travaglio degli uomini. Li vedevo dibattersi fremere ridere inerpicarsi cadere inerpicarsi e nuovamente cadere percuotersi parlarsi sorridere piangere giurare, tutto nella speranza di quel minuto che verrà, di quella storia che verrà, di quella storia che si compirà, di quel bene che.
La imperativa signora mi disse: «Attento!».
Afferrò con la destra una specie di leva e lentamente la spostò. In un quadrante luminoso simile a orologio una lancetta si mosse verso destra. Subito il moto della miriade di creature che popolava la città ebbe come un rigurgito. Il quale non era sana vita, era angoscia febbre frenesia smania di fare di avanzare di guadagnare di issarsi un poco sull’immaginario trespolo delle vanità delle ambizioni delle povere vittorie nostre. Esercito che combatteva alla disperazione contro un invisibile mostro. I gesti si fecero convulsi, le facce più tese e affaticate, aspre le voci.
Spostò la leva ancora un poco. Quelli, laggiù, si precipitarono con impeto moltiplicato nelle cento direzioni delle loro manie, mentre impassibili e cupe le cuspidi delle loro bieche cattedrali si confondevano nel fumo della notte.
«Eccolo qui.» Una voce graziosa mi richiamò a un grande quadro luminoso tipo televisore, di un metro per settanta circa, dove appariva, in primo piano, un uomo. Anche qui c’era una levetta, oltre a una fila di bottoni, che la Rosella stava manovrando.
L’uomo era seduto in un grande studio, avrà avuto quarantacinque anni, doveva essere importante e si agitava di dentro e di fuori contro l’invisibile mostro.
In quel momento stava telefonando: «No» diceva «non ci riuscirete mai per quanti sforzi facciate
non ci riuscirete... D’accordo, sarebbe di mio gusto... Sì, è stato a Berna tre anni fa... a maggior ragione... potrebbe chiedere al mio amico Roger del consorzio oppure a Sutter... No in questi giorni sto pensando ad altro... Come? Vi siete fatti pizzicare? Non avrete mica voglia di combinarmi dei guai...».
Entrò una segretaria con un pacco di carte, un secondo telefono suonò, la segretaria raccolse: «È l’intendenza» disse.
Lui sorridendo prese anche la seconda cornetta.
«Mi scusi» disse nella prima «mi chiamano mi scusi ci sentiremo più tardi e grazie di tutto.» Poi nella seconda: «Caro dottor Ismani... per l’appunto aspettavo... certo, certo... Lei lo capisce, la buona volontà non manca... sicuro... in nome della repubblica, vero?... no questo non lo dovrebbe dire caro dottor Ismani non lo dovrebbe proprio dire».
La segretaria ritornò: «C’è fuori mister Compton» informò. Lui sorrise: «Ah quella peste di un siriano» esclamò fuori del Microfono. «Lo faccia entrare appena chiamo.»
La piccola Rosella osservava compiaciuta la scena.
«Chi è?» le chiesi.
«È il suo ometto» rispose una delle altre ragazzine coi capelli rossi a treccia, e faceva cenno alla Rosella.
«Ma chi è?»
«Stephen Tiraboschi. Industriale.»
«Industriale di che?»
«E chi lo sa? Fabbrica dei cosi.»
Si vide allora entrare nello studio il siriano che era un signore grasso e miope. Poi suonò il primo telefono, poi entrò un ingegnere subalterno annunciando un’avaria al terzo reparto, allora Stephen si precipitò dabasso ma quando fu nello stabilimento lo raggiunse per interfonico la comunicazione che di sopra Stoccarda era in linea, allora Stephen risalì di corsa a telefonare, sulla soglia incontrò i tre capi della commissione interna che l’aspettavano e mentre telefonava a Stoccarda suonò il secondo telefono, era Augusto un vecchio e caro amico infermo che annoiandosi da solo sentiva il bisogno di parlare con qualcuno. Stephen però continuava a sorridere, meravigliosamente sicuro di sé.
La bella signora dell’Inferno toccò col gomito la Rosella: «Dai, bambina. Con quello là non avrai mica del tenero, spero».
«Figurarsi» fece Rosella seria e il suo labbro superiore si ritrasse, furbesco e capriccioso. Nello stesso tempo tirò lentamente verso di sé la leva.
Qualcosa immediatamente si produsse nello studio dell’ingegner Tiraboschi. Come quando si apre il rubinetto nella vasca dove lo scarafaggio è scivolato e, salendo l’acqua, lui impazzisce e freneticamente si inerpica di qua e di là sulla liscia parete di maiolica sempre più erta ed impossibile. Il ritmo che si stringe, l’ansia, l’orgasmo, la palpitazione dei gesti e dei pensieri.
Stava telefonando: no diceva non ci riuscirete mai per quanti sforzi potrebbe chiedere al mio amico oppure Sutter, entrò la segretaria l’altro telefono suonò e l’intendenza mi scusi grazie disse poi caro dottore certo la buona volontà la segretaria Mister Compton il telefono l’avaria al reparto terzo la comunicazione da Stoccarda la commissione interna. Tuttavia egli sorrideva ancora diritto e giovane, caspita che forza.
Riunite intorno allo schermo, le donne seguivano la bella operazione, che brava la Rosella, che delicatezza di supplizio, che deliziosa bambolina.
Sullo schermo ora l’azione si infittiva, nella trama del lavoro quotidiano di Stephen Tiraboschi insinuandosi la torma infetta degli scocciatori come pulci penetranti o zecche. Al telefono alla porta in corridoio all’uscita sulla strada, i loro musi aguzzi e duri insinuavano, penetrando negli interstizi del tempo, dopodiché dilatavano la loro inesorabile potenza, erano i raccomandati, gli inventori, gli amici degli amici, i benefattori, i public relations, le produttrici di enciclopedie, i noiosi simpatici, i noiosi antipatici, avevano facce cordiali, occhi attaccaticci, mandavano un odore speciale.
«Magnifico» disse la signora. «Guardate il ginocchio»
Sotto l’impeto malvagio delle cose, Stephen infatti non sorrideva più come prima e il ginocchio destro nervosamente cominciò a ondeggiare battendo sulla parete interna della scrivania metallica che rintronava come un tamburo, faceva dum dum.
«Su Rosella, accelera accelera» supplicò la ragazzina delle trecce. «Dagli una strizzatina.»
La Rosella arricciò curiosamente la bocca, fissò il dente di ritenzione bloccando la leva e si affrettò al telefono. Come fece il numero, si vide laggiù Stephen immediatamente rispondere.
«Non ti decidi a venire? Io sono pronta da un’ora» lo assalì a freddo la Rosella. «Venire cosa?»
«Ma è venerdì tesoro mi avevi promesso no? avevamo combinato per le cinque no? Avevi detto alle cinque in punto verrò a prenderti.»
Lui non sorrideva assolutamente più. «No cara c’è uno sbaglio è impossibile oggi ho lavoro fin sopra della testa.» «Uffa» piagnucolò la piccola. «Sempre così, quando io desidero qualcosa tu almeno... Non si fa così, ecco... Guarda: se entro un’ora non sei qui a prendermi giuro che...» «Rosella!» «Giuro che non mi vedrai mai più» e tolse la comunicazione.
L’uomo, nello schermo, ansimava, non era più diritto e giovane anzi vacillava sotto il mitragliamento progressivo: la segretaria la chiamata da Livorno l’appuntamento col professore Fox il discorsetto al Rotary il regalo per il compleanno della figlia la relazione al congresso di Rotterdam la segretaria il telefono il lancio pubblicitario del Tampomatic la segretaria il telefono il telefono, e non può dire di no non può sottrarsi deve correre galoppare concentrare serrare sotto per arrivare in tempo senò quella dannata quel fiorellino quella carogna della malora lo pianta garantito.
Il ginocchio dell’ingegnere Tiraboschi batte con ritmo contro il fianco della scrivania la quale rintrona cupamente. «È cotto è cotto» gemette la diavolina rossa. «Su, Rosella, ancora una bella strizzatina!»
Serrando i denti nella intensità della perfidia, Rosella afferrò la leva con entrambe le mani e la trasse a sé di tutta forza, come per farla finita.
Era l’accelerazione ultima, il vortice, la cateratta dell’estremo dì. L’ingegnere non era più Stephen, era un burattino folle che si dimenava vociava rantolava balzava di qua e di là con scatti disossati, una spaventosa scarica di distruzione lo padroneggiava finalmente.
Nello sforzo di tirare la leva, Rosella era paonazza.
«E l’infartuccio, quando arriva?» chiese la signora, quasi rimproverando. «Ha una resistenza quello lì.»
«Oh arriva arriva!» gridò la Rossa.
Un ultimo spasimo muscolare della soave Rosella si ripercosse in Stephen con esplosione epilettica. A un certo punto, mentre stava per afferrare ancora una volta la cornetta del telefono, egli schizzò in aria come un saltamartino per almeno un paio di metri e nel volo la testa vibrava a destra e a sinistra come una bandierina di carta agitata dal vento. Piombò sul pavimento di piatto, pancia in giù, secco.
«Direi un lavoretto a regola d’arte» approvò la padrona. E come cambiando pensiero, mi fissò negli occhi . «E questo qui?» disse. «Se si provasse un poco?»
«Ma sì ma sì» esortava la Rossa.
«No vi supplico» dissi. «Io sono qui per lavoro.»
La terribile mi considerò intensamente. Poi: «Va. Va pure a fare il tuo giretto di ispezione. Al momento opportuno saprò pescarti io... Trottare un poco non ti farà male».
V
Le solitudini
Che strane case laggiù all’Inferno, là dove mi avevano messo ad abitare. Dalla parte davanti era uno spettacolo bellissimo. Scendeva vispa la neve per la vigilia di Natale fra luci, lumini, andirivieni, meravigliose salsicce, e quei cosini scintillanti. Certo così da lontano non si distinguevano le facce se allegre o non allegre, ma il movimento l’agitazione la febbre sissignori. Su un davanzale un gatto si stirava sonnecchiando al dolce giovane bianco sole di maggio ore dieci e mezzo del mattino così propizie agli operatori economici nei solenni lucidati vestiboli delle borse bancarie dove quei raggi sghembi di sole con dentro le volute di fumo azzurro Marlboro o Peer con filtro. E del crepuscolo d’ottobre che ne dite, il cielo azzurro profondo e il sole batte morendo sui finestroni e i pinnacoli d’alluminio nuovissimi mentre la riapertura dell’università dà quel senso di grande avventura che comincia e lei che lo aspetta controluce nei giardini già spogli con la cara pelliccetta. O anche l’alba verde prussia completamente lavata dal vento che fa cigolare le insegne nei vicoli del porto e arriccia piccole onde dispettose, le gutturali sirene, l’agitazione delle ombre, il muggito verde dei parchi, la voglia di lavorare. Così almeno, vista da lontano, sembra.
Sembra. Ma esiste anche l’altra parte della casa, la parte di dentro, le viscere le budella i segreti dell’uomo. Non c’è Natale né sole di maggio né alba di cristallo, bensì luce di gesso grigia uniforme nel cortile che si inabissa alle due e mezza due e tre quarti del pomeriggio, sì, potrebbero essere le flosce quattordici e quaranta di una tepida infingarda maledetta domenica.
Vedete proprio qui sotto, sulla parete di sinistra, quel rientramento dove la luce stenta a penetrare, con una fila di misteriose finestre. Ivi si annidano gli esseri umani, illusi di non essere visti. Fuori, nella strada, l’animazione i traffici i soldi l’energia la lussuria la convulsa battaglia. Qui nel cortile dei condominii universali le aride solitudini nostre vostre.
Finestra del piano nono aperta al mio fianco: una specie di guardaroba contenente un bambino. Avrà sei anni, è brutto, è seduto per terra, è vestito bene, è immobile in mezzo a sparsi detriti di giocattoli paperini pupazzi, il padre al lavoro, la mamma di là con qualcuno. Ora con una serietà tremenda e lentezza si alza e cammina verso l’uscio, visto di schiena ha cinquantotto anni per lo meno, così esattamente sarà da vecchietto. Afferra la maniglia, la gira, spinge, ma il battente non s’apre, l’hanno chiuso dall’altra parte a chiave. «Mamma mamma» grida allora, ma appena due volte. Serissimo, ritorna in mezzo alla stanza, solleva un bambolotto che di qua non si distingue bene, svogliato lo lascia cadere. Nuovamente si siede a gambe divaricate con la facilità che hanno i bambini, non guarda alla finestra tanto sa che è inutile, guarda invece una cosa nell’angolo che di qui non si vede, fissamente, e di là una voce acuta e divertita simile a un “ohi ohi!”, poi di nuovo il silenzio. Si chiudono e aprono le due manine sul pavimento di linoleum come per afferrare qualcosa che non c’è, adagio adagio singhiozzando.
Piano ottavo, grande studio, mobili elettronici, l’uomo è seduto alla scrivania, la penna in mano per
correggere la relazione manoscritta, ma la penna non si muove. Ha quarantacinque anni, baffetti e occhiali,
ricco, abituato a comandare. La sedia della segretaria è deserta, se ne sono andati i commissionari i fiduciari dei consorzi i consiglieri delegati i rappresentanti delle Americhe i banchieri i plenipotenziari è venuta la sera. Passato l’orario, nessuno infatti ha più bisogno di lui, tacciono stanchi i cinque telefoni neri, l’uomo li guarda ansioso, indefinibile sete interna, non bastandogli le grandi potenti solide invidiate cose che ha. Bisogno di libertà? di follia? Di giovinezza? di amore? Scende la sera è discesa la sera, ad uno ad uno, l’importante l’autorevole il temutissimo vedo che prende i cinque telefoni neri, se li mette sulle ginocchia e li accarezza come gatti sornioni ed egoisti. Trillate suonate chiamate rompetemi le scatole fedeli amici di tante battaglie, non parlatemi solo di ordinativi di cifre di tratte almeno una volta parlatemi di altre stupide cose. Nessuno però dei cinque gattoni si muove, duri ermetici muti nessuno risponde ai tocchi delle impervie mani. Di fuori, nel vasto regno, di là delle quattro pareti tutti certo lo conoscono e sanno il suo nome, ma ora che la terribile notte verrà nessuno lo cerca lo chiama, né donna né pezzente né cane, non hanno più bisogno di lui.
Piano settimo. Si vedono appena due piedi nudi abbandonati e immobili come quelli di un piccolo Cristo al termine della deposizione. Adesso che sono usciti i parenti, ciascuno verso i rispettivi interessi, che sono uscite le comari le amiche il buon don Gervasoni della parrocchia il direttore didattico la maestra il medico fiscale il commissario di P. S. il fioraio il fosco imprenditore i compagni di classe in comitiva, ora che la casa è rimasta vuota e tutti quelli che dieci minuti prima erano lì commiserando lacrimando singhiozzando sono ormai in giro pieni di vita, chiacchierano, ridono fumano, mangiano cannoni con la panna, ora che è tornata la calma, la donna si è messa a lavare il suo bambino morto perché se ne vada bello pulito. È stato un camion ad ammazzarlo è stata un barca ad annegarlo è stato il treno è stata la diga. La disgrazia ha fatto una grande impressione ne hanno parlato la radio e i giornali ma ventiquattro ore sono già passate, e sono tante. Certo occorre un pannolino morbido, acqua tepida, borotalco, amore. Nessuno la interromperà disturberà garantito, hanno altro per la testa. Di quassù odo ogni tanto la sua voce, non sono gemiti e disperazioni, anzi è un discorso tranquillo come tutti i giorni fanno le mamme, solo che è l’ultima volta. «Sai che cosa sei Pupetto? Sei un grande porcellino, guarda che nere queste orecchie, e qui sul collo... Se non ci fossi io, in che stato andresti a scuola. Ma che cos’hai oggi Pupetto? Ti lasci fare non protesti non strilli, oggi sì che sei buono...» Poi un tonfo, un grande silenzio a forma di mostro con una lunghissima coda.
C’è anche un altro che sta lavando al piano di sotto numero sei. Inginocchiato sulle piastrelle strofina una macchia oblunga. Dall’alto la persona non si vede, soltanto le mani che accanitamente fregano con moto circolare. Nella stanza è acceso un transistor che frigge e sibila emettendo musica swing. Una macchia oblunga e scura dall’approssimativo colore del sangue. Ma ecco che le due mani scompaiono abbandonando lo straccio, ecco lui farsi al davanzale, è un giovanotto sui trent’anni, solido sano sportivo, con le basette anche. Si guarda intorno, accende una sigaretta, sorride, chi più tranquillo di lui? Non è successo assolutamente nulla. Una casa rispettabile e incensurata. Egli fuma a lenti respiri, perché mai dovrebbe avere fretta? Getta l’ultimo mozzicone, si ritira, la piccola brace con spiritosa traiettoria si perde nei tetri meati in penombra. Poi, nella luce che declina, di nuovo quelle due mani inferocite che strofinano strofinano, e la macchia diventa sempre più nera si allunga si allarga si gonfia vittoriosa al suono stridulo di una danza, di un surf, di una samba di un mondo lontano dove lui mai ritornerà.
Nel piano quinto, l’ultimo in cui dalla mia posizione si poteva vedere qualche cosa, c’era pure un uomo. Non dico che esistesse veramente: c’era. La luce morta del cavedio se ne stava andando come il cameriere decrepito del vecchio caffè quando parte l’ultimo cliente. Lo vedevo dall’alto in basso, in prospettiva quasi verticale. Stava in piedi, fermo perduto naufrago di un mare ostile e cupo che l’attorniava per estensioni immense. La schiena vedevo, un po’ curva, la sommità del cranio, quei capelli piccoli e grigi. In piedi come sull’attenti. Di fronte a chi?
Lo vedevo lo guardavo all’improvviso lo riconobbi dalla caratteristica curva della nuca, il vecchio compagno! Lui. Quanti anni insieme, gli stessi pensieri desideri sfoghi disperazioni. Amici eravamo, di una intimità straordinaria, anche se ingrato di aspetto, e per anni gli volli bene. Stava ora dinanzi allo specchio, diritto e curvo, orgoglioso e sconfitto, padrone e servo, con quella brutta piega all’angolo dell’occhio.
E perché così fermo? Cosa c’era? Qualche ricordo? O la vecchia umiliante ferita che di tanto in tanto si contorce e manda sangue? O il rimorso? O il pensiero di avere sbagliato tutto? O gli amici perduti? O i rimpianti?
Rimpianti di cosa? Della giovinezza che è finita per caso? Ma lui se ne ride della giovinezza, la giovinezza non gli ha dato che pene e malinconie. Lui se ne ride ah ah. Lui ha tutto ciò che l’uomo può onestamente desiderare. No, al tempo, rettifico. Non proprio tutto, anzi qualcosa soltanto. Anzi niente, adesso che ci pensa.
A questo punto lo chiamai sporgendomi dal davanzale. Ciao, dissi, perché era un vecchio amico. Lui neppure si voltò, con la destra fece un cenno quasi per dire andate andate. Allora adieu. Vestito di grigio con una stilografica e una biro nella tasca interna della giacca, la nuca alquanto scavata. E bisognava vederlo. Cercava anche di tenersi su, con le mani sui fianchi, imbecille. E sorrideva anche. Ero io.
Dopodiché con mia sorpresa si spalancò ancora il piano di sotto. Illuminata al neon, una grande sala di cui non scorgevo la fine, piena zeppa di gente. Almeno quelli non saranno soli, pensai.
Era un ricevimento era un concerto era un cocktail era una conferenza era un’assemblea era un comizio. La sala era zeppa, ma continuavano ad arrivare e si stipavano gli uni sugli altri.
Mi accorsi che c’ero anch’io, sceso dal piano di sopra. Riconobbi una quantità di persone, i compagni di lavoro coi quali viviamo gomito a gomito per decine d’anni e non sappiamo non sapremo mai cosa sono, i coinquilini che da decine d’anni dormono ogni notte di là del muro a una cinquantina di centimetri e ne udiamo perfino il respiro ma non sappiamo non sapremo mai cosa sono, c’era il nostro medico il droghiere il garagista l’edicolante la portinaia il cameriere che per decine d’anni ogni giorno incontriamo e parliamo eppure non sappiamo non sapremo mai cosa sono. Adesso erano compressi nella folla gli uni contro gli altri, si fissavano con occhi atoni, nessuno si riconosceva.
Così, quando il pianista attaccò l’Appassionata,quando il conferenziere disse “dunque”, quando il valletto servì i Martini, tutti fecero un moto con la bocca a guisa di pesci morenti, invocando forse un po’ d’aria, un grammo almeno di quella cosa di orribile gusto che si chiama pietà, amore. Ma nessuno si liberava, nessuno era capace di uscire dalla casa di ferro in cui si trovava chiuso fin dalla nascita, dall’orgogliosa cretina scatola della vita.
VI
L’Entrümpelung
Anche nella metropoli dell’Inferno esistono i giorni di festa, nei quali l’uomo gioisce. Ma come? Uno dei più importanti ricorre alla metà di maggio e si chiama Entrümpelung, costume forse di origine tedesca, che significa sgombero, repulisti. Ogni casa, il 15 di maggio, si sbarazza dei vecchiumi, depositandoli o scaraventandoli sui marciapiedi. La popolazione della bolgia si libera delle cose rotte, consunte, diventate inutili, antipatiche, noiose. È la festa della giovinezza, della rinascita, della speranza, ah!
Dormivo una mattina nel piccolo appartamento assegnatomi dalla signora Belzeboth, la terribile tipa incontrata il primo giorno. Dormivo e mi svegliarono rumori di mobili smossi e trascinati, di passi, di trambusto. Pazientai mezz’ora. Guardai quindi l’orologio, erano le sette meno un quarto. In vestaglia uscii a vedere. Voci, richiami, la sensazione che la grande casa fosse già tutta sveglia.
Salii una rampa di scale, di là proveniva il baccano. Sul ballatoio una vecchietta, in vestaglia anche lei, ma linda, ben pettinata, sui settanta.
«Cosa succede?»
Lei sorrise:
«Non sa? Fra tre giorni c’è l’Entrümpelung, la grande festa della primavera.»
«E che significa?»
«È la festa della pulizia. Fuori, fuori tutto quello che non ci serve più. Lo scaraventiamo sulla strada. Mobili, libri, carte, cianfrusaglie, cocci, un mucchio così. Poi vengono i furgoni del municipio a portar via.»
Sempre con quel suo mite sorriso. Era gentile, graziosa perfino, nonostante le rughe. Il sorriso si aprì:
«Ha osservato i vecchi?» chiese.
«Quali vecchi?»
«Tutti. In questi giorni i vecchi sono straordinariamente gentili, pazienti, servizievoli. Lo sa il perché?»
Io tacqui.
«Nel giorno della Entrümpelung» spiegò «le famiglie hanno il diritto anzi il dovere di eliminare i pesi inutili. Perciò i vecchi vengono sbattuti fuori con le immondizie e i ferrivecchi.»
La guardai sbalordito:
«Mi scusi, signora... lei non ha paura?»
«Ragazzaccio!» esclamò ridendo. «Io dovrei aver paura? Paura di che? Paura di essere sbattuta nell’immondizia? Sa che questa è magnifica!»
Rideva con giovanile abbandono. Aprì una porta che portava un’etichetta col nome Kalinen.
«Fedra!» chiamò. «Gianni! Venite qui, vi prego.»
Dall’anticamera in penombra sono sbucati lui e lei: Gianni e Fedra.
«Il signor Buzzati» presentò. «Mio nipote Gianni Kalinen e sua moglie Fedra.» Prese fiato. «Ascolta, Gianni, perché è veramente bellissima. Sai che cosa mi ha chiesto questo signore?»
Gianni la guardò debolmente.
«Mi ha chiesto se per l’Entrümpelung io avevo paura! Se avevo paura di essere... di essere... Non trovi che è bellissima?»
Gianni e Freda sorridevano. Guardavano la vecchietta con amore. Adesso ridono, enormemente ridono per la folle assurdità di una simile idea. Loro, Gianni e Fedra, sbarazzarsi della cara impagabile zia Tussi!
Ci fu uno strepitoso sommovimento nella notte fra il 14 e il 15 maggio. Ruggiti di camion, tonfi, sbattimenti, cigolii. Al mattino quando uscii era come se ci fossero state le barricate. Dinanzi a ogni casa, sul marciapiedi, ammucchiata una congerie di rifiuti di ogni genere, mobili sgangherati, scaldabagni arrugginiti, stufe, attaccapanni, vecchie stampe, pellicce sdrucite, le miserie nostre abbandonate sulla spiaggia dalla risacca dei giorni, la lampada passata di moda, gli antichi sci, il vaso slabbrato, la gabbietta vuota, i libri che nessuno ha letto, la stinta bandiera nazionale, i pitali, il sacco di patate marce, il sacco di segatura, il sacco di dimenticata poesia!
Mi trovavo dinanzi a una montagnola di armadi sedie canterani sfondati, pratiche di ufficio nelle loro grosse cartelle, biciclette di antichi tempi, cenci innominabili, putrefazioni, gatti morti, water infranti, indescrivibili residui di lunghe travagliate coabitazioni, masserizie abiti intime vergogne giunte all’ultimo stadio dell’usura. Guardai in su, era un falansterio immenso e cupo che toglieva la luce, con centomila opache finestre. Poi mi accorsi di un sacco che si muoveva da solo per interni svogliati contorcimenti. E ne veniva una voce: «Oh, oh!» faceva, sottomessa, rauca, rassegnata.
Mi guardai intorno spaventato.
Una donna al mio fianco, con una grande borsa da spesa, rigonfia di ogni ben di Dio, mi notò:
«Cosa vuole che sia? Uno di quelli. Un vecchio. Era ora, no?»
Un ragazzetto dal ciuffo protervo si è avvicinato al sacco e sferra un calcio. Risponde un mugolio cavernoso.
Da una drogheria esce una padrona sorridente con una secchia colma d’acqua, appressandosi al sacco che lentamente brontola:
«È dall’alba che questo mi rompe l’anima. L’hai goduta la vita, no? Cosa pretendi ancora? E prendi questo!»
Così dicendo ha rovesciato il secchio d’acqua sull’uomo chiuso nel sacco, il quale è vecchio, stanco, non può fornire un normale quoziente di produttività, non è più capace di correre, di rompere, di odiare, di fare l’amore. E quindi viene eliminato. Fra poco arriveranno gli incaricati dell’autorità municipale, lo butteranno nella fogna.
Mi sento allora toccare una spalla. È lei, Madame Belzeboth, la regina delle amazzoni, la bella maledetta.
«Ciao, bel signore. Non vieni su a vedere?» Mi ha afferrato un polso e mi trascina. La porta a vetri del mio primo giorno d’Inferno, l’ascensore del primo giorno, l’ufficio-laboratorio del primo giorno. Ancora le ragazzette perfide, ancora gli schermi accesi, nei quali si scorge l’intimità dei milioni di esseri stipati intorno per chilometri e chilometri. Qui, per esempio, si vede una camera da letto. Sul letto una corpulenta donna di oltre settant’anni, ingessata fino a mezzo busto. Sta parlando con una signora di mezza età, molto elegante.
«Mi mandi all’ospedale, signora, mi mandi all’ospizio, signora, qui sono di peso, non posso fare più niente, non posso più servire a niente.»
«Scherzerai, cara Tata» risponde la signora. «Oggi viene il dottore e decideremo dove...»
La diavolessa intanto mi spiega:
«Ha allattato la mamma, ha fatto da bambinaia alle figlie, sta tirando su i nipotini, cinquant’anni a servire nella stessa casa. Si è rotto un femore. Adesso sta a vedere.»
La scena sullo schermo: si avvicina un vocio, irrompono cinque bambini e le due giovani loro madri in gran festa: «È arrivato il dottore!» gridano. «E il dottore guarirà la Tata! È arrivato il dottore! E il dottore guarirà la Tata!» Sempre gridando, spalancano la finestra, spingono il letto accanto alla finestra.
«Un po’ di aria buona per la Tata» gridano. «Adesso ve’ che bel salto fa la Tata!» In tre donne e cinque bambini danno una tremenda spinta alla vecchia, fuori del letto, sul davanzale, ancora più in là. «Viva la Tata!» gridano. Di sotto l’orribile tonfo.
Mrs. Belzeboth mi trascina immediatamente a un altro schermo: «È il famoso Walter Schrumpf, acciaierie, della grande dinastia Schrumpf. L’hanno fatto cavaliere del lavoro, impiegati e maestranze lo festeggiano». Nel grande cortile dello stabilimento, in piedi su una rossa pedana, il vecchio Schrumpf sta ringraziando i presenti, lacrime di commozione gli rigano le guance. Mentre parla, due alti funzionari in doppiopetto blu gli si avvicinano alle spalle, si chinano, gli passano un laccio metallico intorno alle caviglie, si rialzano, di colpo con tutte le forze danno lo strappo. «Sappiate che io vi considero tutti come figlioli» stava dicendo. «Vorrei che voi mi consideraste un vostro pad...» Stramazza pestando in pieno la faccia sulla pedana, dal cielo cala il gancio di una altissima gru, lo appendono come un maiale per i piedi, inebetito dalla sorpresa e dal terrore lui balbetta parole indistinte. «Hai finito di comandare vecchio schifoso!» Ora gli sfilano accanto, somministrandogli sberle selvagge. Dopo una ventina di colpi ha già perso gli occhiali, i denti, i sensi. La gru lo solleva e porta via.
Un terzo schermo: vedo una casa piccolo borghese, distinguo facce conosciute. Ma sì. Ecco la gentile zia Tussi, ecco il nipote Gianni Kalinen con la simpatica moglie Fedra, ci sono anche i due bambini. Lietamente seduti al desco familiare, parlano della Entrümpelung, commiserando quei poveri vecchi. Specialmente Gianni e Fedra sono indignati. In quel mentre il campanello della porta. Sono due erculei inservienti comunali, con berretto e camice bianco. «È lei la signora Teresa Kalinen detta Tussi?» chiedono mostrando un documento. «Sono io» risponde la vecchietta. «Perché?» «Mi dispiace, signora, ma lei ci deve seguire.» «Seguire, dove? A quest’ora? E perché?» Zia Tussi è pallida come la morte, si guarda intorno smarrita col presentimento orrendo, fissa il nipote invocando, fissa la nipote invocando. Ma i nipoti non fiatano.
«Poche storie» fa uno dei due inservienti. «Qui c’è tanto di firma di suo nipote Kalinen, tutto è in perfetta regola»
«Impossibile!» esclama zia Tussi. «Mio nipote non può aver firmato, non può aver fatto questo... Vero Gianni? Parla Gianni, spiegagli tu che c’è un errore, un equivoco.»
Ma Gianni non parla non spiega, Gianni non fiata, e neppure fiata sua moglie, i bambini anzi assistono con aria divertita.
«Parla, Gianni, ti supplico... di’ qualcosa!» invoca zia Tussi arretrando.
Un inserviente si lancia afferrandola a un polso.
È leggera e fragile come una bambina. «Muoviti , strega, è finita la cuccagna!»
Con rude celerità professionale, come lei si getta a terra, la trascinano urlante fuori della stanza, fuori dell’appartamento, giù per le scale, lasciando che sbatta malamente di gradino in gradino, con brutto rumore di ossa. Gianni, Fedra e i due bambini non si sono mossi di un centimetro. Ora lui dà un lungo sospiro: «Meno male, anche questa è fatta» dice, riprendendo a mangiare. Buono questo spezzatino.»
VII
Belva al volante
Forse il direttore ha fatto male a scegliere, per un “reportage” sull’Inferno, un uomo timido, gracile, deteriorato e sprovveduto come me. Al minimo imbarazzo io arrossisco e balbetto, non arrivo agli ottanta centimetri di torace, ho il complesso di inferiorità e il mento sfuggente, se qualche volta me la cavo è soltanto con lo zelo. Meno male che ho comperato un’automobile.
Ma lo zelo conta poco in un posto come l’Inferno. All’apparenza tutto, qui, può sembrare identico alla solita vita. In certi momenti mi par d’essere propriamente a Milano: anche alcune strade identiche, le insegne dei negozi, i manifesti, le facce della gente, il modo di camminare e così via. Eppure, appena si ha un contatto col prossimo, anche una semplice richiesta di informazione, o le due tre parole che si scambiano per comperare un pacchetto di sigarette o prendere un caffè, basta pochissimo e subito si avverte una indifferenza, una lontananza, una freddezza impassibile e grigia. È come toccare una morbida coperta di piuma e accorgersi che sotto c’è una lastra di ferro o di marmo. E questo lastrone scoraggiante è largo quanto la città, non esiste un solo angolo qui nella metropoli dell’Inferno dove non si vada a battere contro questo duro maledetto. Per questo, ci vorrebbero dei tipi molto più robusti e scafati di me. Per fortuna adesso ho una macchina.
Tale è l’identità con Milano di alcune parti dell’Inferno che talora sorge un dubbio: che cioè una differenza non esista, e in realtà siano la medesima cosa, e anche a Milano – dico Milano per dire la città nostra, di ciascuno di noi, la città della solita vita – anche a Milano basterebbe premere un poco la coperta, il velo, grattare la morbida vernice per scoprire il duro, il lastrone di indifferenza e di ghiaccio.
Ho comperato un’automobile, per fortuna, e la situazione è migliorata. Vuol dire moltissimo, qui all’Inferno, l’automobile.
Quando sono andato a ritirarla, un fatto curioso: le macchine pronte per la consegna sono allineate, lunghissime file, in uno sterminato salone. Bene, sapete chi stava armeggiando fra quelle vetture, con indosso una sgargiante tuta azzurra? Rosella, la valletta di Madame Belzeboth, la graziosa diavolina. Al primo sguardo ci siamo riconosciuti: «Cosa sta facendo lei qui conciata in questo modo?».
«Io? Io lavoro.»
«Ha lasciato la Signora?»
«Nemmeno per idea. Qui e lì contemporaneamente. In fondo è sempre la stessa ditta.» Fece un risolino. Teneva in mano un coso simile a una grossa siringa.
«E che lavoro fa?»
«Finissaggio carrozzerie» rispose. «Abbastanza interessante. Auguri, ciao.» Accennò ad andarsene, poi si voltò gridando: «Ho visto la sua. Gran modello. Complimenti. Le abbiamo fatto una ripassatina speciale».
In quel mentre il capo-sala mi chiamò per consegnarmi la macchina. Era nera, aveva dentro quel l’odore squisito di vernice nuova, quella specie di giovinezza. Ma che cosa diavolo poteva combinare la Rosella nella grande fabbrica d’automobili? Si trovava là per caso, quando io ero arrivato? E che cosa intendeva dire con “ripassatina speciale”? Certo, appena sedetti al volante, mi sentii rinfrancato.
Ma il vero cambiamento cominciò dopo un paio d’ore. Non so, avevo la sensazione che dal cerchio del volante si sprigionasse un fluido, un’energia prepotente che mi saliva su per le braccia, e si propagava dovunque.
La “Bull 370” è sicuramente una bella automobile. Non borghese, non seduta, nemmeno da playboy, però. Biposto, ma non sportiva. Con una grinta massiccia e proterva. Da quando la guido, sono un altro.
A bordo della “Bull 370” sono più giovane e più forte, sono diventato anche più bello, io che ho sempre patito tanto per la mia faccia. Ho messo su una espressione disinvolta, vigorosa e parecchio moderna, le donne dovrebbero guardarmi con piacere e desiderarmi. Se io rallento e mi fermo, le belle ragazze si butteranno all’arrembaggio, che fatica difendersi dalle loro piogge di baci.
Sono migliorato di prospetto, migliorato ancora più di tre quarti, massimamente però di profilo. È un profilo da proconsole romano del primo impero, insieme virile e aristocratico, è un profilo da campione di boxe. Il mio naso era diritto, floscio e insignificante, adesso è piuttosto aquilino e nello stesso tempo rincagnato, il che è molto difficile da ottenere. Non so se si possa parlare di bellezza nel senso classico, eppure adesso mi piaccio enormemente quando mi esamino nello specchietto retrovisore.
Meravigliosa soprattutto la sicurezza in me, quando cammino a bordo della “Bull”. Fino a ieri io non avevo la minima importanza, ora sono diventato molto importante, penso di essere l’uomo più importante, anzi più importantissimo dell’intera città metropoli, non c’è superlativo che basti.
La sicurezza in me, il benessere fisico, una carica di selvaggia energia, la tracotanza atletica: ho dei muscoli pettorali che sembrano la porta del Duomo, ho voglia di far sentire chi sono, ho voglia di attaccar lite, io, pensate, che alla sola idea di una discussione in pubblico mi sentivo svenire. Io innesto la prima marcia e la seconda, io vado su di giri, il tubo di scappamento vibra e si arroventa, i miei ottanta cavalli trottano galoppano per le vie, i loro zoccoli fanno dei tonfi maledetti di estrema potenza, ottanta novanta centoventi seicentomila cavalli purosangue. C’era uno, poco fa, che veniva da destra. Io ho frenato. Ma quello ha visto la mia faccia, ha frenato anche lui, mi ha fatto cenno di passare. Allora io sono andato in bestia, mascalzone tanghero gridavo; tocca passare a te, che cosa sono questi giochetti? E ho fatto per discendere. Buon per lui che se l’è filata.
E quell’autista di camion? A un semaforo dovevo voltare a sinistra, mi ero fermato in mezzo all’incrocio, impedivo il passo all’autocarro. L’uomo si è affacciato al finestrino, era un bestione spaventoso, e con un braccio da gorilla ha cominciato a pestare sul suo portello, come impazzito, urlando: «E muoviti, lumacone!». Siccome l’ha detto in dialetto, la gente si è messa a ridere. A questo punto sono sceso, mi sono fatto sotto il camion, ho sentito che intorno si faceva silenzio (in quel momento che faccia avevo?): «Tu» ho chiesto lentamente al gorilla «hai qualche cosa da dire? C’è qualcosa che non ti sfagiola?». «Io no, scusi sa. Avevo detto così per scherzare.»
Ho sentito dire che qui all’Inferno mettono sui volanti delle auto una speciale vernice che è una droga simile a quella famosa che scatenava i torbidi istinti del dottor Jekyll. Forse è per questo che tante persone miti e remissive si trasformano in manigoldi brutali e bestemmiatori appena sono alla guida di un’auto. Per questo ogni ricordo di cortesia svanisce, ci si sente lupi tra i lupi, ridicole questioni dì precedenza impegnano a fondo il sacro onore, l’impazienza, l’inciviltà, la intolleranza imperano. La mia macchina per di più deve avere ricevuto cure particolari. La graziosa Rosella, con la sua “ripassatina speciale” ha probabilmente esagerato nella dose.
Perciò, quando guido la “Bull 370” mi sento con soddisfazione una belva, un Nembo Kid: una pienezza animalesca di vita, una smania di sfrenatezze, la voglia di impormi, farmi temere e rispettare, il gusto dell’offesa, dell’epiteto volgare e come tale umiliante, proprio le cose che una volta odiavo di più.
Ancora: questa ferocia interna si deve riflettere sul mio volto, sull’espressione, sul moto delle membra. Io mi illudo di essere più bello di prima. Eppure quando la mia ira automobilistica esplode, leggo negli occhi degli astanti la repulsione e l’orrore, come accadeva a Mr. Hyde. È il Demonio che in .me trionfa?
Poi, alla sera, quando nella solitudine immensa della mia casa ritorno col pensiero sulla trascorsa giornata, io mi spavento. Dunque l’Inferno è penetrato in me, nel sangue, io godo del male e della mortificazione altrui, io godo nel sopraffare il prossimo, io spesso vorrei frustare, battere, dilaniare, uccidere. Certi giorni con la mia potente macchina giro per la città ore e ore senza mete con l’unica speranza di un incidente che mi consenta di attaccar briga e sfogare la carica di odio e di violenza.
E non si è accorto quell’idiota che io stavo arrivando? Non aveva lo specchietto? Perché non ha acceso i lampeggiatori? Uscendo bruscamente dal posteggio, una media cilindrata mi ha tagliato la strada, io sono andato a sbatterle contro, addio splendida fanaleria di destra.
«Imbecille!» urlo balzando a terra. «Guarda che disastro hai combinato. Ma si può essere più somari di così?»
È un signore sui quarantacinque anni, con una giovane bionda e carina.
Sorride, si sporge dal finestrino:
«Sa, signore, che cosa le dico?»
«Cosa?»
«Che lei ha perfettamente ragione.»
«Ah, lei fa lo spiritoso adesso?»
Anche lui scende. Mi accorgo con abbietta gioia che il mio aspetto gli fa venire i brividi.
«Mi dispiace veramente» dice porgendo il biglietto da visita. «Per fortuna sono assicurato.»
«Lei crede di cavarsela così? Lei crede di cavarsela così? Lei crede di cavarsela così?» Con l’indice e il medio riuniti gli do dei secchi e malvagi colpetti sul naso.
«Tonino, vieni via!» grida la ragazza dall’auto.
Al quinto colpetto l’uomo reagisce spingendomi indietro, ma quasi con garbo.
«Bravo!» inveisco. «Anche la violenza adesso, anche i pugni?»
Lo afferro per un braccio, glielo torco crudelmente dietro la schiena, lo costringo a chinarsi.
«Vigliacco» fa lui. «Aiuto! Aiuto!»
«Tu adesso, mascalzone, bacerai il gibollo che hai fatto alla mia macchina, lo leccherai con la tua lingua come i cani. Così impari come si fa a stare al mondo.»
La gente intorno attonita sta. Che cosa mi sta accadendo? Perché odio tanto quest’uomo? Perché vorrei vederlo distrutto? Perché questa voluttà di sopraffazione e di ingiustizia? Chi mi ha stregato? Io sono la cattiveria, la vigliaccheria, la foresta. Sono schifosamente felice.
VIII
Il giardino
Non è tutto infernale all’Inferno.
In uno degli schermi di Mrs. Belzeboth vidi laggiù, nel colmo del groviglio urbano, un giardino, era un vero giardino fatto di prati, alberi, aiuole e fontanelle, recinto da un alto muro; bellissimo per la festa della vegetazione all’irrompere della calda primavera. Una stupefacente isoletta di pace, riposo, speranze, buona salute, buoni odori e silenzio. Ancora più strano il seguente fenomeno: mentre la restante metropoli era stancamente illuminata dal flaccido e putrido sole della metropoli, il giardino risplendeva di luce pura come quella delle montagne. Quasi esistesse un invisibile tubo che mettesse in diretta comunicazione il giardino con l’astro, riparando quel breve tratto di città dalle pestilenze e dai furori dell’aria circostante.
Su di un lato del giardino sorgeva una casa a due piani di antico e nobile aspetto, attraverso i finestroni spalancati del primo piano si intravedeva un grande salotto arredato come i vecchi salotti delle case ricche, patriarcali e sicure, in un angolo naturalmente esisteva un pianoforte a mezza coda, al piano sedeva una signora sui sessantacinque anni, coi capelli bianchi e l’espressione mite, suonando abbastanza bene un improvviso di Schubert, e la musica non rovinava affatto il silenzio del giardino perché era musica fatta apposta per non contaminare le paci dell’animo, erano le due e tre quarti del pomeriggio e il sole sembrava contento di vivere.
Su un lato del giardino sorgeva una casupola di stile garbatamente rustico per il custode, che faceva anche il giardiniere. Dalla porta di questa casina uscì una bimba di tre anni che si mise a saltellare sul prato canterellando una sua incomprensibile filastrocca. Attraversato il prato, la bambina si accucciò all’ombra di un cespuglio e subito le venne incontro un coniglietto selvatico, suo amico, che là aveva la sua tana. La piccola prese in braccio il coniglietto e lo portò al sole. Tutto era lieto, felice, perfetto, tale e quale certi quadri un po’ leziosi dell’ottocento tedesco.
Io mi volsi alla signora Belzeboth che seguiva le mie esplorazioni, e le dissi: «Come la mettiamo, signora? Sarebbe questo l’Inferno?».
Da un angolo della sala il sussurrio delle ancelle. E la regina delle amazzoni rispose: «L’Inferno non esisterebbe, ragazzo mio, se prima non ci fosse il Paradiso».
Detto così, mi invitò a un altro schermo dedicato esclusivamente al salotto della vecchia distinta signora. Aveva smesso di suonare il piano perché era entrata una visita: un signore sui quarant’anni con occhiali che le esponeva un certo progetto, ma la signora sorridendo scuoteva la testa: «No, dottore, mai e poi mai venderò il mio giardino, preferirei morire piuttosto, grazie al cielo è sufficiente quel po’ di rendita che mi rimane».
L’altro insistette enormemente, pronunciando delle bellissime cifre, pareva quasi che stesse per cadere in ginocchio. Ma la dama rispondeva di no, di no, piuttosto preferiva morire.
A un terzo schermo mi trasse allora la dominatrice. Passando dinanzi al video puntato ancora sul giardino inverosimile, intravidi il coniglio che stava mangiando delle grandi foglie di lattuga, e la bambina al suo fianco, con soddisfazione materna.
Nel terzo schermo si assisteva a una solenne riunione in una sala ancora più solenne. Era una seduta del Consiglio della Città, tutti i consiglieri seduti ascoltavano un discorso dell’assessore Massinka, incaricato di sovrintendere ai parchi e ai giardini. Il Massinka perorava la causa del verde, dei prati, degli alberi, polmoni della intossicata città. Parlava bene, con argomenti persuasivi e serrati, alla fine si ebbe una vera ovazione. Intanto era scesa la sera.
Mi riportarono al salotto della distinta signora. Entrò un nuovo visitatore più in male arnese del primo. Da una cartella estrasse un foglio che portava i timbri delle municipalità, dei governatorati, degli ispettorati, dei ministeri minimi e massimi: per potervi costruire una rimessa per autobus, assolutamente necessaria nella zona, una fetta del giardino veniva espropriata.
La signora protestò, si indignò e perfino pianse, ma il visitatore se n’andò lasciando sul pianoforte il documento coi malefici timbri e nel momento stesso si udì fuori il frastuono. Una specie di rinoceronte meccanico sfondava il muro di cinta del giardino e con le sue braccia a forma di falce, di tenaglia, di denti, di odio e di distruzione, si avventò sugli alberi, sui cespugli e sulle aiuole della striscia prefissata trasformando tutto, nel giro di pochi minuti, in una poltiglia di terra e di fango. Proprio laggiù aveva la sua tana il coniglietto, la bambina fece appena in tempo a salvarlo. Alle mie spalle, nella sala in penombra, le demoniache ragazzine ghignavano.
Si tornò al Consiglio della Città, erano passati appena due mesi, il professor Massinka esplodeva in irruenti proteste contro lo scempio delle ultime superstiti oasi di verde e alla fine volevano portarlo in trionfo, tale era l’entusiasmo suscitato. Mentre scrosciavano gli ultimi applausi, un messo entrava nel salotto della nostra signora porgendo un foglio coperto di timbri spaventosi: le supreme esigenze della strutturazione urbanistica imponevano l’apertura di una nuova arteria per sbloccare il centro supercongestionato, donde l’esproprio di una seconda fetta di giardino. I singhiozzi della signora furono ben presto coperti dal fracasso frenetico dei bull-dozers sitibondi di selvaggia rovina. E si diffuse un acuto odore di manovra elettorale. Fu un miracolo se la bambina, svegliata di soprassalto, arrivò in tempo a salvare il coniglietto la cui nuova tana stava per rimanere spiaccicata.
Il muro di cinta risorse perciò molto più a ridosso della casa, il giardino era ormai ridotto a una povera fettuccia di prato con tre alberi appena, il sole tuttavia riusciva, ancora, nelle belle giornate, a illuminarlo decentemente e ancora la bambina correva su e giù, ma era un breve cammino, dopo pochi salti le toccava sempre tornare indietro, altrimenti sarebbe andata a sbattere contro il muro.
Dallo schermo del Consiglio della città si udì nuovamente tuonare l’invettiva del benemerito professor Massinka assessore ai parchi e ai giardini, il quale riuscì a convincere tutti gli astanti che la salvezza del pochissimo verde residuo nella città era questione di vita o di morte. Contemporaneamente una specie di volpe umana sedeva nel salotto della signora, persuadendola che un terzo esproprio era in progetto e che unica soluzione per lei era vendere al più presto, sul libero mercato, la rimanente porzione di giardino. All’udire quegli atroci discorsi, lacrime scendevano in silenzio giù per le pallide guance della signora, ma l’altro pronunciava numeri sempre più alti, un milione al metro quadrato, trenta milioni al metro quadrato, sei miliardi al metro quadrato e così dicendo porgeva un foglio da firmare e una biro per mettere la firma. La tremula mano della signora non aveva terminato di tracciare l’ultima lettera del suo aristocratico cognome che fuori si scatenò l’apocalisse con dilaceramenti e schianti.
La signora Belzeboth e le sue vallette erano adesso intorno a me e sorridevano beate dell’impresa. Era una serena giornata di settembre, il giardino non esisteva più, al suo posto un funesto buco, un angusto pozzo nudo e grigio sul cui fondo, con impressionanti contorsioni, riuscivano a entrare e a uscire certi furgoncini. Laggiù il sole non sarebbe arrivato mai più nei secoli dei secoli, e neppure il silenzio, né il gusto di vivere. Nemmeno il cielo si poteva vedere dal sinistro cortiletto, neppure un minuscolo fazzoletto di cielo, tanti erano i fili e i cavi che si intrecciavano, da un lato all’altro del pozzo, per il trionfo dei progressi e delle automazioni. Vidi finalmente la bambina che sedeva, piangendo, col coniglio morto sulle ginocchia. Ma poco dopo la mamma, chissà con quali pietosi espedienti, glielo portò via e, come fanno tutti alla sua età, la bambina ben presto si è consolata. Ora non corre più sui prati e tra i fiori, ma con delle scaglie di cemento e bitume raccolte in un angolo del cortiletto erige una sorta di costruzione, forse il mausoleo per la sua amata bestiola. Certo non è più la graziosa bimba di prima, le labbra, quando sorride, hanno agli angoli una piccola
piega dura.
Ora mi si chiederà di rettificare, poiché all’inferno non possono esistere bambini. Invece ce ne sono, e come. Senza il dolore e la disperazione dei bambini, che probabilmente è la peggiore di tutte, come potrebbe esserci un Inferno comme-il-faut? E poi, a me stesso che ci sono stato, non è ben chiaro se l’Inferno sia proprio di là, o se non sia invece ripartito
fra l’altro mondo e il nostro. Considerando ciò che ho potuto udire e vedere, mi domando anzi se per caso l’Inferno non sia tutto di qui, e io mi ci trovi ancora, e che non sia solamente punizione, che non sia castigo, ma semplicemente il nostro misterioso destino.
(Dino Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo, in Il Colombre e altri cinquanta racconti, Milano, Mondadori, 1966, pp. 381-449.)