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di Franco Russo
In Italia, diversamente che in altri paesi europei, le misure derivate dai trattati internazionali non sono mai state sottoposte a referendum. Un ostacolo che ha impedito una vera discussione nel paese e che ha espropriato la sovranità popolare in più punti. Dopo l’assemblea del 1 Ottobre, la richiesta di un referendum sulle misure antipopolari imposte dalla Bce, sta entrando nell’agenda dei movimenti sociali.
Haris Kastanidis, ministro degli Interni (e della repressione) in Grecia, di fronte all’inarrestabile ondata di scioperi che da mesi paralizza il paese per impedire l’attuazione delle misure di austerità –cioè dei licenziamenti, dei tagli a salari stipendi e pensioni, delle privatizzazioni dei servizi sociali e della svendita del patrimonio pubblico imposti dalla Commissione Europea, dalla BCE e dal FMI – si è chiesto in Parlamento se non si debba indire «un referendum sulla crisi del debito che ha sprofondato il Paese (e l’Eurozona) nella peggiore crisi del dopoguerra» (riportato da Il sole 24ore, 6 ottobre 2011, p. 11). Il ministro teme che l’aspro conflitto sociale non si risolverà se il popolo greco non potrà avere la possibilità di discutere e decidere sul debito con un referendum.
In Germania, nonostante sia il Bundestag sia la Corte Costituzionale, dunque organi centrali nel processo decisionale istituzionale, abbiano ripetutamente discusso e deliberato sui provvedimenti dell’UE (in particolare sul cd meccanismo salva-stati dell’EFSF), l’autorevole settimanale Die Zeit in prima pagina ha chiesto al governo ‘Fragt das Volk!’ (‘Interroga il popolo!’) per superare il deficit di democrazia e di legittimazione (n. 40, 29 settembre 2011). E lo strumento, anche in questo caso, è stato individuato in un referendum. Die Zeit ha tanto a cuore l’iniziativa referendaria come via per assumere decisioni così vitali come quella sul debito pubblico, e sul secondo salvataggio delle banche in tre anni, che nello stesso numero in un’intervista a Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze, insiste sulla necessità di una Volksabstimmung, un referendum, che ovviamente il ministro non ritiene utile. Dunque, la crisi economica, finanziaria e sociale solleva la questione della democrazia nell’UE, la questione del ‘chi decide’, e dinnanzi a scelte così cruciali per la vita di centinaia di milioni di persone, ai governanti si chiede di ascoltare i popoli.
L’Unione Europea non è una istituzione democratica
L’UE non è un’istituzione democratica, a decidere sono i governi e la tecnocrazia in stretto collegamento con i ‘poteri forti’ della finanza, delle banche e delle imprese. In questa crisi il potere decisionale si è concentrato nelle sedi del Consiglio Europeo, della Commissione e della BCE, che detta l’agenda e dispone i provvedimenti di politica economica, finanziaria e sociale.
Siamo a un tale degrado del dibattito pubblico sulle procedure decisionali dell’UE che a sollevare almeno delle riserve su di esse sono le sentenze della Corte Costituzionale tedesca, che però si muove in un’ottica di difesa della democrazia attraverso la salvaguardia delle prerogative nazionali dello Stato. È stata, comunque, la Corte di Karlsruhe a porre ‘la riserva parlamentare’ come condizione imprescindibile delle decisioni per l’erogazione dei crediti agli Stati, imponendo il parere della Commissione Finanze del Bundestag. È stata essa a pronunciarsi sul Trattato di Lisbona rilevando che l’attribuzione di nuove competenze possono mettere in pericolo i diritti fondamentali dei cittadini tedeschi – nel campo del diritto civile e penale così come in quelli della politica estera e della difesa, i cui ‘pilastri’ sono stati comunitarizzati con il Trattato di Lisbona. La Corte di Karlsruhe, in 421 paragrafi, ha dissezionato il Trattato puntando, come già in precedenti pronunce, sul deficit di legittimità democratica dell’Unione, che pertanto non dovrebbe pretendere di legiferare senza sottoporre le sue normative al vaglio degli organi nazionali (Parlamento e Corte costituzionale). «Il Trattato di Lisbona non porta a un nuovo livello di sviluppo la democrazia», è la secca conclusione della Corte (punto 295), e con questo si dice esplicitamente che un conto è parlare di mercato interno e di non discriminazione tra le merci per la loro provenienza, altro è trattare di migranti, di cittadinanza o dei diritti della persona che non vengono, e per la Corte non devono essere, ‘europeizzati’. Non c’è popolo europeo, non ci può essere pertanto democrazia: la Corte ribadisce questa proposizione, già enunciata nella sentenza del 1992 sul Trattato di Maastricht, per rivendicare la primazia degli Stati nazionali, unici a essere guidati da una Costituzione e ad essere democraticamente legittimati. I limiti della critica della Corte tedesca consistono nell’esaltazione dello Stato nazionale come unico possibile spazio della democrazia costituzionale, nell’epoca in cui i processi economici transnazionali hanno svuotato le istituzioni pubbliche nazionali di potestà decisionali tramite le procedure di governance e depotenziato i diritti sociali tramite i vincoli di mercato – i Trattati sono la nuova costituzione economica dell’UE. La governance ademocratica trova la sua espressione più manifesta nelle procedure dell’Unione dove il Consiglio dei ministri rimane il perno della ‘legislazione’ europea assistito dai comitati di esperti che istruiscono le decisioni con gli esponenti dei ‘poteri forti’, lasciando privo il Parlamento del potere di iniziativa e con il solo diritto di veto su materie ben enumerate. Il Consiglio, nelle sue diverse formazioni, rimane il dominus del processo normativo mentre il potere di iniziativa è saldo nelle mani della Commissione. Già solo per questa commistione tra potere legislativo ed esecutivo, oltre per la fragile garanzia dei diritti come fondamento delle istituzioni, si può affermare che l’UE ha cancellato la base della democrazia costituzionale, il cui necessario presupposto è l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 che recita: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione».
Il trasferimento di sovranità è stato operato dagli Stati
Contro i sistemi decisionali dell’UE, l’appello agli Stati nazionali in nome della identità costituzionale, di cui si è fatto interprete la Corte tedesca, è fuori tempo ed incapace di offrire una leva per trasformali. Ciò che sfugge, a mio avviso, ai giudici costituzionali tedeschi è che sono proprio gli Stati nazionali ad operare il ‘trasferimento di sovranità’ per sfuggire ai controlli dei parlamenti nazionali e all’ottemperanza delle norme costituzionali, visto che, sia pure nelle ‘competenze attribuite ed enumerate’, il diritto europeo si applica direttamente, gode della prevalenza e i giudici stessi sono chiamati ad applicarlo quand’anche in contrasto con il diritto nazionale. Che gli Stati nazionali siano i signori dei Trattati, principio peraltro sostenuto dalla Corte tedesca, sta a significare che essi decidono e applicano le norme a secondo delle loro convenienze e interessi, che sono quelli della ‘costruzione dell’ordine giuridico del mercato’ sovranazionale.
Anche in questa crisi le élites dirigenti perseguono la salvaguardia dei mercati ridisegnando il circuito imprese-banche-debito pubblico-Stati. L’alleanza tra mercati e governi si stringe a livello transnazionale nell’ambito dell’Unione europea e i suoi contraenti sono i governi, tramite il Consiglio europeo, il sistema bancario e finanziario, e la BCE. Quando a decidere la gestione dei debiti sovrani sono il Consiglio europeo, la Commissione e la BCE, anche i luoghi della sovranità politica si trasferiscono. I modi di questo ulteriore trasferimento, che hanno trasformato da ademocratica in autoritaria la governance europea, sono stati predisposti con le procedure del ‘semestre europeo’. Esse sono state formalizzate nel nuovo Patto di stabilità, annesso alle conclusioni del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, il cui titolo − Patto Euro Plus. Coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza – ben ne esprime lo spirito. Il Patto per l’Euro, così ribattezzato dal governo italiano nel Documento di Economia e Finanza 2011, rappresenta un ‘momento di innovazione costituzionale’: «Gli effetti del Patto non sono e non saranno limitati alla dimensione economica […] ma esteso alla dimensione politica. Effetti destinati a prendere la forma di una sistematica e sempre più intensa devoluzione di potere dagli Stati-nazione ad una comune nuova e sempre più politica entità europea» (DEF, Camera dei deputati, doc. LVII, n. 4, p. 5). Il ‘semestre europeo’ è ben più di una procedura per la definizione dei bilanci nazionali, è una nuova configurazione di potere tra UE e Stati nazionali.
L’UE, per gestire la crisi economico-finanziaria, ha dunque concentrato ancor di più i poteri nel Consiglio europeo e nella BCE, ‘giudici di ultima istanza’ che dettano, attraverso la verifica dei Programmi di Stabilità e dei Piani di Riforma Nazionali, le misure di bilancio e di politica economica.
Una minacciosa “governance” sui paesi europei
L’Ecofin ha delineato le sei nuove regole (il cd. Six pack) per consentire alla Commissione di lanciare allarmi preventivi in caso di allentamenti nella disciplina di bilancio, per obbligare gli Stati alla riduzione del debito (1/20 ogni anno della quota eccedete il 60% del PIL), per irrogare sanzioni per il loro mancato rispetto anche nelle fasi iniziali degli scostamenti, sanzioni da applicare con più automatismo così da evitare compromessi politici. L’UE continua a tappe forzate la sua marcia per rendere stringenti per i Paesi membri le sue decisioni in materia di bilancio e di ‘riforme strutturali’, relative a mercato del lavoro, privatizzazioni, smantellamento del welfare.
L’UE è il nuovo potere che decide in ultima istanza le misure economiche, finanziarie e sociali, tanto che le ultime ‘manovre’ italiane, compresa quella del 13 agosto (d.l. n.138, convertito nella legge 148/2011), sono state scritte sotto dettatura della Commissione e della BCE, attraverso una ‘lettera riservata’ del 5 agosto divenuta di dominio pubblico grazie al Corriere della Sera (29 settembre 2011). Queste misure sono state avallate dalla Banca d’Italia − Draghi ha co-firmato la lettera del 5 agosto − e protette dalla rete bipartisan tessuta dal Presidente della Repubblica Napolitano, che si è fatto garante, data la scarsa credibilità del governo Berlusconi, degli impegni italiani in tema di pareggio di bilancio e delle cd. riforme strutturali per la crescita.
La signoria degli Stati si manifesta con il fatto che le loro strategie politiche sono sottratte al vaglio di qualsiasi organo di rappresentanza, così grazie alle istituzioni dell’UE, si ripropongono all’alba del XXI secolo Stati assoluti, sciolti da ogni vincolo di controllo parlamentare e costituzionale. Oggi la volontà politica degli Stati è protesa ancora una volta alla salvaguardia del sistema capitalistico europeo, secondo modalità decise dai soli governi grazie alle istituzioni della governance europea. La via per trasformare l’UE non è l’utopia regressiva della Corte costituzionale tedesca; può essere solo quella di una costruzione di istituzioni pubbliche sovranazionali fondate sui diritti della persona, su un modello sociale e produttivo alternativo al capitalismo, sulla democrazia rappresentativa e partecipata che dia al Parlamento europeo il diritto di iniziativa legislativa e il potere di esprimere la fiducia all’organo esecutivo.
Italia. Il consenso bipartizan impedisce l’espressione democratica
In relazione all’UE, l’Italia vive una situazione molto drammatica perché maggioranza e opposizioni, in questa fase anche su pressione del Presidente Napolitano, votano insieme i provvedimenti assunti in sede UE – come dimostrano i voti sul Trattato di Lisbona, sulla legge di contabilità riformata per adeguarla alle procedure del semestre europeo, la risoluzione bipartisan della Camera dei deputati sulle politiche europee del 7 settembre 2001, e il varo delle ultime due manovre economiche, i cui tempi stretti di approvazione sono stati concordati con le opposizioni. Voglio, infine, ricordare che l’EFSF, frutto del Patto Euro Plus, è stato votato in Parlamento attraverso la ‘via breve’ dei decreti leggi n. 78/2010 e n.138/ 2011.
In Italia, in virtù dell’art.75 della Costituzione che vieta il referendum per le leggi di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali, è sbarrata la via al ricorso al voto popolare sui Trattati europei. Sia chiaro: un referendum non risolve il deficit di democrazia dell’UE, tuttavia quesiti referendari su ‘se pagare o non pagare il debito’ sarebbero necessari affinché scelte che riguardano la vita di tutti/e fossero definite direttamente dai cittadini e dalle cittadine. Non possono decidere le oligarchie, economico-finanziarie e politiche. Chi ha autorizzato la BCE a dettare la lettera al governo italiano? Chi ha autorizzato la ‘troika’ – Commissione Europea, BCE e FMI – a dettare le misure di austerità alla Grecia, al Portogallo, all’Irlanda, e alla Spagna? Quale mandato ha il Consiglio Europeo – formato dai Capi di Governo e di Stato − a valutare e a decidere i piani di stabilità e i piani di riforma nazionali se non quello attribuitogli dagli stessi governi?
Referendum sull’Unione Europea. C’è un precedente
Nel 1989, in occasione delle elezioni europee, il Parlamento italiano con una legge di rango costituzionale varò un ‘referendum di indirizzo’ per chiedere ai cittadini se non si ritenesse di dover attribuire al Parlamento Europeo un mandato costituente per redigere una Carta Costituzionale europea. Sarebbe pertanto possibile, su un tema di rilievo come quello del debito, far svolgere un referendum di indirizzo, forti del precedente del 1989. Nel Comitato ‘Noi il debito non lo paghiamo’ si è discusso di questa proposta che a me pare di grande rilievo, e ritengo che ci si preparare anche per i referendum costituzionali sulle controriforme degli articoli 41 e 81 della Costituzione. Le misure sul pagamento del debito ai ‘grandi investitori’, il salvataggio ormai permanente delle banche e le controriforme degli articoli 41 e 81 della Costituzione mirano a imporre una ‘costituzione economica’ guidata dai valori del liberismo, e ad escludere qualsiasi possibilità di intervento delle istituzioni pubbliche, locali nazionali ed europee, nell’economia se non per garantire ‘l’ordine giuridico del mercato’.
Per aprire la via al referendum dovremmo porre a tutti la questione, innanzitutto al Presidente della Repubblica, il garante della Costituzione: ‘Le sorti dei popoli devono deciderle i mercati o i cittadini?’. Formulato altrimenti il senso del referendum dovrebbe essere: dominio dei mercati o primato dei diritti delle persone, a cominciare dall’articolo 3 della Costituzione?
La difesa dei valori della democrazia costituzionale è la base della lotta per una Costituzione europea, innervata dei diritti politici sociali ed economici della persona.
Referendum popolari in Europa non risolvono di certo la crisi economica, servirebbero però a creare uno spazio pubblico continentale per deliberare sulle misure per fuoriuscire dalla crisi: non le oligarchie, i cittadini e le cittadine italiani/e ed europei/e devono decidere come riorganizzare istituzioni pubbliche banche finanza ed economia, come trasformare il modo d’essere della società in cui vivono, riprendendo così nelle loro mani il proprio destino.
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