Giustizia e informazione
Il prete dei talk show lancia insulti omofobi al nostro giornalista. E poi sfugge al processo
Il collaboratore dell’Espresso Simone Alliva raccontò dei commenti di Radio Maria al terremoto di Amatrice. Per tutta risposta, Ariel S. Levi di Gualdo ha diffuso un dossier infamante sul suo conto. Querelato, da 5 anni a Siracusa le udienze vengono rinviate
di Enrico Bellavia
È il 30 ottobre 2016, sono passate dodici ore dal terremoto di Amatrice che ha sconvolto l’Italia. Su Radio Maria si alza una voce: «Dal punto di vista teologico questi disastri sono una conseguenza del peccato originale, sono il castigo del peccato originale, anche se la parola non piace. […] Arrivo al dunque, castigo divino. Queste offese alla famiglia e alla dignità del matrimonio, le stesse unioni civili. Chiamiamolo castigo divino».
Ai microfoni Giovanni Cavalcoli, frate domenicano e sacerdote.
L’Espresso per primo, tramite il suo collaboratore Simone Alliva, riporta la notizia che ha un eco internazionale. Radio Maria si scusa e sospende la trasmissione del parroco. L’Italia protesta. Le uscite di Cavalcoli imbarazzano anche la Santa Sede che ordina restrizioni con proibizione di predicare, confessare, celebrare la Santa Messa. Mentre Angelo Becciu, sostituto alla segreteria dello Stato Vaticano commenta: «Sono affermazioni offensive per i credenti e scandalose per chi non crede».
Dopo un mese, il nostro collaboratore riceve dei commenti sui propri profili social che segnalano un link che rimanda a un blog da titolo: “L’Isola di Potamos”. I post riportano le sue foto, le sue generalità e l’università alla quale è iscritto.
Titolo: «È terminato l’embargo per Padre Giovanni Cavalcoli, ma voi boicottate la Lumsa, università pseudo cattolica che accoglie le “serpi in seno” che sputano sul piatto dove mangiano».
Il post viene presentato sotto forma di trilogia e porta la firma di Ariel S. Levi di Gualdo, presbitero e teologo, fondatore delle Edizioni L’Isola di Patmos. Spesso protagonista di talk televisivi come Diritto e Rovescio su Rete 4.
Alliva viene raccontato come: «Un “religioso” della suprema “neo-chiesa del gender” che scrive forse i propri articoli aggressivi vagando da un localino gay all’altro della Capitale, facendo al tempo stesso il master post-laurea in giornalismo. […] Il suo spirito malvagio forse unito anche all’intima gioia d’aver recato grave danno, dolore e disagio a un uomo timorato di Dio che per età potrebbe essere suo nonno».
Nel secondo articolo della trilogia Alliva viene preso di mira per aver vinto una borsa di studio. «Beneficia anche di una borsa di studio. E detto questo dobbiamo dedurre che non solo questa università cattolica si mette in casa un ideologo della cultura del gender e dell’omosessualismo più radicale, ma al proprio interno lo agevola pure per le spese di studio»
Il terzo articolo invece attacca indirettamente anche l’allora direttore del settimanale Tommaso Cerno: «Il suo mecenate è Tommaso Cerno, che de L’Espresso oggi è il direttore. Tommaso Cerno è un altro militante gay che su questo settimanale approva e passa gli articoli e i servizi che parlano delle più “immani sporcizie” della Chiesa Cattolica, inclusi intrallazzi, sistemazioni di amici degli amici e spirito clientelare che tanto scandalizza l’agire “irreprensibile” di questi Moralisti Gay, ormai da tempo al di sopra del bene e del male». E continua: «Se Silvio Berlusconi favoriva donne-vamp e belle ragazze nelle sue aziende private o per la candidatura nelle liste di Forza Italia, per tutta risposta le numerose prefiche gay sul libro paga de L’Espresso si stracciavano le vesti al grido di meretricio berlusconiano! Se però Tommaso Cerno sistema poco più che adolescente uno dei suoi ragazzotti gay a L’Espresso, questo non è meretricio gay, è cosa veramente buona e giusta».
Simone Alliva decide così di querelare per diffamazione presso il Tribunale di Roma. «Assisto il giornalista Simone Alliva in questo procedimento dal 2017, anno in cui veniva depositata querela per gli articoli diffamatori pubblicati sul sito “Isola di Potamos”, colmi di offese ed insulti, prevalentemente omofobi, mossi a suo carico da padre Ariel Allevi di Gualdo», spiega l’avvocato Francesca Rupalti: «La richiesta di tutela da parte del giornalista ha incontrato molte difficoltà, dopo un primo trasferimento per incompetenza territoriale dalla Procura di Roma a quella di Siracusa, il mio assistito ha dovuto opporsi anche alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Siracusa. La motivazione fu che il reato, se pur sussistente, veniva considerato di particolare tenuità, come se gli insulti più grevi e gli accostamenti più bassi, contenuti in ben tre articoli, potessero essere considerati poco più di uno scivolone o comunque un comportamento su cui si potesse sorvolare. In altre parole, che la dignità lesa di un cittadino, attaccato nella sua persona per proprio lavoro, non fosse tale da scomodare un procedimento penale. Per fortuna il Gip accolse l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata da Alliva, disponendo il rinvio a giudizio di Ariel Levo di Gualdo. Ad oggi, ad anni di distanza, spiace dover riportare che il processo non è mai avanzato oltre la prima udienza. Dopo innumerevoli rinvii per ricerche, ove l’imputato per anni non veniva reperito presso il proprio indirizzo di residenza, nonostante sia addirittura stato visto anche in programmi di prima serata di livello nazionale, per la seconda volta assistiamo alla presentazione di rinvii per legittimo impedimento basati su motivi di salute decisamente discutibili».
La prima una congiuntivite. La seconda un rimpolpamento degli zigomi. Dopo un’aggressione avvenuta nel 2016. «Ad oggi, sperando comunque in un esito che soddisfi la richiesta di punizione avanzata dal mio assistito nei confronti di Ariel Levi di Gualdo, non posso che constatare come i numerosissimi rinvii pregiudicheranno in ogni caso Simone Alliva, che si è già trovato a sopportare spese di partecipazione al processo che non troveranno probabilmente ristoro. Il tutto con la prescrizione che incombe». Conclude l’avvocato.
«Questa storia non riguarda solo me, ma riguarda chi fa questo mestiere. Sono giunto alla conclusione che denunciare non serve», spiega Simone Alliva: «Dopo quelle pubblicazioni ho avuto difficoltà con l’Università, a causa di una campagna portata avanti da Gualdo di boicottaggio della mia presenza. E poi naturalmente di opportunità lavorative: non è bello presentarsi ai colloqui e sapere che dall’altra parte chi cerca informazioni su di te legge per prima cosa “omosessualista e genderista”. Poi c’è la paura. In pochissimo tempo il mio volto era diventato visibile in ambienti cattolici estremisti che erano a conoscenza anche della mia sede universitaria. È una forma anche di censura, indiretta. Una reazione di questo tipo a un articolo di pura cronaca ti paralizza, ti fa domandare se è il caso di continuare ad occuparti del tema. Sono passati cinque anni. Io mi sono presentato a tutte le udienze del processo rimandate per mancata notifica o legittimo impedimento. Gualdi mai. Ho speso più soldi di quanto potessi permettermene. Voli, alloggio, avvocato. In questi cinque anni non ho mai cercato la ribalta mediatica. Sono calabrese, sono stato uno dei ragazzi di Locri. Mi sono formato scrivendo di legalità, in anni di ricerca vera e piena di giustizia, tra il Centro Studi Pio La Torre e la mia terra di origine. Oggi scrivo di diritti civili e giustizia. Sono cresciuto con l’idea che quest’ultima si possa cercare in Tribunale. I soggetti istituzionali, lo Stato sono l’unico garante. Sbagliavo. Oggi scrivere è un rischio. Denunciare è una tassa economica non indifferente. Ed è qualcosa che mette in pericolo chi scrive e chi legge. Se un semplice processo di diffamazione, documentale, palese diventa un calvario lungo 5 anni vuol dire che ci troviamo di fronte un sistema giustizia malato che dissuade il giornalista dal "raccontare i fatti a ogni costo"».