di Alberto Bagnai
Professore associato di Politica economica,
Facoltà di Economia, Uni. G.D’Annunzio, Pescara
Poveri euristi!
Glielo ha detto in faccia perfino Frits Bolkestein, uno degli artefici del Mercato Unico: “L’Unione monetaria è un esperimento fallito”. È successo a Roma, il 12 aprile, al convegno dia/simmetrie, dove 500 persone e un consistente drappello di imprenditori, sindacalisti e politici (Alemanno, Boghetta, Crosetto, Fassina, Messina, Salvini) hanno preso atto di questo certificato di morte e delle sue motivazioni: nel Nord Europa non esiste alcuna volontà di dar seguito a un progetto federale, al famoso “più Europa”, all’unione politica, per il semplice motivo che i contribuenti del Nord, istruiti da anni a ritenere che la crisi sia colpa del Sud, non hanno alcuna voglia di metter mano al portafoglio per contribuire a sanare gli squilibri europei in modo solidale. Certo, ilvicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha detto che in realtà la colpa di questo disastro è dell’atteggiamento irresponsabile delle banche del Nord. Ma questo, ovviamente, è un altro paio di maniche: l’elettore va dove propaganda vuole, e al Nord sono degli esperti nel settore…
Poveri euristi, ottusi seguaci di un progetto fallimentare e mortifero!
Glielo ha detto perfino il Fondo Monetario Internazionale, con le parole dello storico irlandese O’Rourke: “Fra 50 anni ci chiederemo perché lo abbiamo fatto!”
Fra 50 anni, certo. Ma oggi, i poveri euristi, commentatori diversamente preparati in economia, giornalisti diversamente indipendenti, studiosi diversamente a proprio agio coi dati, intellettuali diversamente colti, sono ancora, ahi loro, alla prima fase dell’elaborazione del lutto: la negazione!
Oddio, a giudicare dalla feccia che ogni tanto tracima su certe testate, par di capire che qualcuno sia arrivato alla seconda fase (la rabbia), ma il problema non è questo. Il problema è che gli euristi non vogliono farsi aiutare, poverini. Avrebbero bisogno di uno psicologo, ma invece no, loro, tetragoni, continuano a negare, o a trasudare impotente e patetico livore.
La negazione prende una forma particolarmente ridicola: quella di contestare il dato di fatto che neldeclino dell’economia italiana l’euro c’entri e come!
Ha cominciato tempo addietro Lucrezia Reichlin, sul Corriere della Sera del 9 aprile 2012, notando che “come reddito pro capite, almeno fino all’inizio degli anni Novanta, l’Italia è stata simile ai più forti Paesi europei”, e il suo distacco dagli altri paesi avviene “prima dell’entrata nell’euro”. In effetti è vero. Guardate un po’ questo grafico, che illustra lo scarto fra il reddito medio italiano e quello dell’Europa a 15 paesi:
(i san Tommaso in 64° che abbondano su questo blog sono cortesemente pregati di verificare i calcoli qui, se non si fidano della dottoressa Reichlin). Si vede bene che dal 1996 l’Italia è in caduta libera in termini di reddito relativo, con una breve battuta di arresto nel 2000, quindi la Reichlin dice indubbiamente la verità. O meglio: obbedendo a una delle regole auree degli spin doctor, dice una verità parziale per asseverare una bugia totale, quella che l’euro “non c’entri”. Suvvia, dottoressa: come se ci fossimo dimenticati cosa è successo a metà anni ’90! Il declino è iniziato prima dell’euro, nel 1996, perché lo stesso euro, in pratica, è cominciato prima del 1999, è cominciato proprio nel 1996. Guardi, glielo spiego, perché non ha avuto tempo per approfondire certi dettagli: prima di entrare nella moneta unica un Paese deve mantenere per due anni il cambio fisso rispetto ad essa (con margini minimi di fluttuazione: succede ancora oggi e si chiama ERM II). Quando la moneta unica ancora non c’era, occorreva mantenere per due anni il cambio sostanzialmente fisso rispetto all’Ecu. Qui c’è quello che ha fatto l’Italia:
Vede? Il cambio, in pratica, è stato fissato nel 1996, e per di più dopo una drastica rivalutazione. Secondo le regole europee sarebbe bastato farlo nel 1997, ma noi, che siamo sempre più realisti del re, lo abbiamo voluto fare un anno prima.
Ce la facciamo a mettere insieme due disegnini? Sì, ecco, appunto, il declino inizia da quando il cambio è stato fissato (a una parità troppo forte). I due fatti vanno insieme, e si può dimostrare che non è una coincidenza: esiste una ben precisa spiegazione teorica del perché uno shock di domanda come quello causato da una drastica rivalutazione, che strozza le esportazioni, possa avere effetti cumulativi su produttività e crescita nel lungo periodo (i dettagli sono qui).
Rintuzzato questo grossolano tentativo di riscrittura della storia, questo ennesimo tentativo orwelliano di ricostruzione del passato per controllare il futuro, voi penserete che il discorso si sia chiuso. Invece no! In ossequio a un’altra precisa tecnica della persuasione occulta, il vero spin non si arrende di fronte all’evidenza, anzi, rincara la dose. E così è stato un florilegio di “il declino inizia negli anni ’70”, “no, anzi, negli anni ‘60”, “no, anzi…” e così, via via, su per li rami, passando per congresso di Vienna, Trattati di Vestfalia, morte nera del 1348, fino ad arrivare alla vera causa del declino italiano, e, direi, umano in genere: questa!
Incuranti del fatto di contraddirsi gli uni con gli altri, gli euristi proseguono imperterriti, ma tutte le loro spiegazioni confondono il declino assoluto (il rallentamento della crescita, fatto fisiologico) con quello relativo (la perdita di posizioni rispetto a economie simili, fatto patologico), dando prova di una assoluta e totale ignoranza della più elementare teoria economica.
Certo che negli anni ’60 il tasso di crescita dell’Italia era superiore all’attuale: ci mancherebbe altro! L’Italia era un paese ancora in parte da ricostruire, privo di infrastrutture, da industrializzare (l’Autostrada Roma-Milano venne completata nel 1964). La teoria economica insegna che il capitale è più produttivo dove è più scarso (si chiama legge dei rendimenti decrescenti), che è poi il motivo per il quale i paesi più arretrati crescono mediamente più in fretta.
Negli anni ’70, l’Italia era cresciuta meno che negli anni ’60, ma possiamo parlare di inizio del declino? No, perché pur crescendo meno che nel decennio precedente, l’Italia era riuscita a ridurre di circa 1000 euro il divario di reddito pro capite dagli altri paesi europei, cioè a recuperare in termini relativi. Perché mai? Ma è semplice: perché quello che valeva per lei (la ridotta produttività di uno stock di capitale sempre più abbondante, e quindi la diminuzione della crescita) valeva anche per gli altri. Tutti i paesi europei rallentarono in termini assoluti (il tasso di crescita degli anni ’70 fuovunque inferiore a quello degli anni ’60), ma l’Italia rallentò un po’ meno, perché era ancora relativamente indietro, e perché era padrona della propria politica economica.
E negli anni ’80, pur crescendo ancora meno che negli anni ’70, l’Italia era comunque riuscita a non retrocedere in termini relativi, cioè a crescere in linea con la media europea, nonostante fosse già imbrigliata negli accordi di cambio dello Sme. C’è voluta la pesante distorsione del mercato causata dalla fissazione del cambio per piegare il nostro paese, strozzandone la componente più dinamica: la piccola e media impresa altamente specializzata e aperta ai mercati esteri, che si è trovata all’improvviso il listino prezzi aumentato del 10%, in conseguenza della strana decisione di rivalutare in modo così drastico, prima di entrare in un sistema che impediva alla Germania di rivalutare (cosa che invece accadeva regolarmente dentro lo Sme).
Citare tassi di crescita a casaccio, ritagliando in modo arbitrario il campione di riferimento (pratica nella quale certi giornalisti eccellono), non ha alcun senso. Chi vuole parlare del declino italiano deve spiegare il primo dei due grafici riportati qui, dimostrando la sua indipendenza dal secondo.
Il resto è flatus vocis o flatulenza.
Concludo.
Di teorie “fatte in casa” circa l’origine della crisi gli italiani ne hanno piene le tasche. Tre anni di sforzo divulgativo, iniziato qui, non sono stati inutili. La fame non è solo un ottimo condimento: è anche un’ottima insegnante. Gli italiani hanno fatto lo sforzo di documentarsi, e ora i dati li conoscono, come ha capito a sue spese il Corriere della Sera. L’esempio del Corriere sia da monito a chiunque si arrischi ad inquinare il dibattito con informazioni distorte o apertamente menzognere. Chi uccide la verità uccide la democrazia. In nome dei nostri figli, non giocate questo gioco: la menzogna è levatrice della violenza. Uccidere l’Europa per salvare l’euro è un crimine insensato. Ravvedetevi.
Post scriptum: Andrea Boltho, citato da Fubini, parteciperà a questo convegno organizzato da a/simmetrie, presentando uno studio comparato dell’unificazione tedesca e di quella italiana. Nella stessa conferenza Dominick Salvatore (Fordham University) si interrogherà sulla fine della crisi, Joe Brada (Arizona State University) ci parlerà di capitalismo e disuguaglianza nel 21° secolo, e Gary Jefferson (Brandeis University) ci illustrerà le prospettive di sviluppo dell’economia cinese. Gli euristi abbaiano, ma la carovana della buona ricerca continua ad avanzare.
Fonte: Il fatto quotidiano