Maastricht erede di Auschwitz
La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke, ha sortito l’effetto di attribuire anche ad un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire. Non era però questo l’obiettivo principale dell’operazione, dato che l’isterismo così generato ha fornito il pretesto per reintrodurre in grande stile nella legislazione la criminalizzazione delle opinioni; ciò attraverso il reato di “negazionismo” nei confronti del cosiddetto “Olocausto”. In molti hanno notato che, rispetto allo scopo dichiarato, la legge contro il “negazionismo” appare del tutto incongruente; anzi, essa finisce per attribuire all’opinione che si dice di voler combattere una patente di anticonformismo culturale e persino di eroismo. Sono quindi altre le opinioni che si vogliono effettivamente colpire, perciò si vedranno ben presto una legislazione ed una giurisprudenza ad hoc, che magari dilateranno la categoria di “negazionismo” a ben altri scetticismi, come quello di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 settembre, o nega l’esistenza di Bin Laden. Lo scopo non è esclusivamente repressivo, ma soprattutto di discredito nei confronti di opinioni che vedrebbero con imbarazzo il trovarsi accomunate a “quel” negazionismo.
L’aspetto paradossale di questa vicenda sta nel fatto che l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del premio Nobel per la Pace. Molti storici hanno notato che l’aspetto pionieristico e sperimentale del nazismo è consistito nell’aver applicato all’Europa metodi che erano stati tipici del colonialismo in Africa, in America ed in Australia. Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio sulle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero possibili solo in società tribali, etniche e frammentate, e fossero invece impraticabili in un’Europa in cui le società erano ben strutturate ed esistevano nazioni dotate di lingue e storie comuni.
A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare ed usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali, era stato nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale, e ciò in riconoscimento di quanto gli Ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la guerra mondiale in corso contro la Germania. La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli Ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli Ebrei. Ma nel “Mein Kampf” l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia perfida e ostile, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque ed in ogni situazione.
Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che, sino ad allora, si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa. La redenzione dell’Europa dell’Est dal cancro dello statalismo economico dopo la caduta del Muro di Berlino, ha finito così per coinvolgere anche l’Europa occidentale, che si è dovuta piegare alle stesse forche caudine delle privatizzazioni e della liquidazione del welfare, come se anch’essa fosse parte sconfitta nel dopo-Guerra Fredda. Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di redenzione. La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il FMI uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, ed i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la seconda guerra mondiale.
Nel secondo dopoguerra l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani -, per quanto conosciuto e documentato, è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca IG Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La IG Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank.
La IG Farben di Auschwitz rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale. Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle relocation aziendali, costituisce una macabra ironia della Storia.
Data la logica aziendale che presiedeva ad Auschwitz, risulta persino irrealistico ritenere che un genocidio non vi sia stato, visto che questo era pienamente conseguente alle premesse. Se, grazie alle deportazioni di massa, la materia prima umana veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere, ne derivava, per mere ragioni di budget, la sottoalimentazione dei lavoratori e la eliminazione sistematica degli inabili al lavoro.
Si è detto spesso, retoricamente, che Auschwitz ha rappresentato il “Male Assoluto”, “il Male allo stato puro”, e l’uso di un termine magniloquente ed esoterico come “Olocausto” contribuisce a perpetuare questa metafisica. In realtà non esiste il “Male Assoluto”, ma esiste il male, che consiste nell’asimmetria delle relazioni umane. Se nella relazione economica il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili. Al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi. Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali.
Il nazismo viene di solito fatto passare per un nazionalismo estremo; al contrario, il nazismo anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato. Tutto deve essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale. Chiaramente il contesto tecnologico attuale è molto diverso, quindi i parallelismi con il passato non devono prendere la mano. Rimane comunque il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa.
La nuova frontiera del business è il microcredito, di cui una delle forme suscettibili di maggiore sviluppo è il “migrant banking”. Grazie ai cellulari l’inclusione finanziaria può coinvolgere agevolmente persone senza fissa dimora. L’enorme attenzione dedicata al business del migrant banking è testimoniata da un progetto cofinanziato dall’Unione Europea ed dal Ministero degli Interni italiano, ed attuato in collaborazione con una delle più grandi aziende di servizi finanziari del mondo, la Deloitte, una società di origine svizzera che però oggi ha le sue principali sedi operative a New York e Londra. Ancora una volta le istituzioni pubbliche si piegano agli interessi del lobbying privato per costruire una nuova Auschwitz, stavolta diffusa sul territorio.
L’aspetto paradossale di questa vicenda sta nel fatto che l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del premio Nobel per la Pace. Molti storici hanno notato che l’aspetto pionieristico e sperimentale del nazismo è consistito nell’aver applicato all’Europa metodi che erano stati tipici del colonialismo in Africa, in America ed in Australia. Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio sulle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero possibili solo in società tribali, etniche e frammentate, e fossero invece impraticabili in un’Europa in cui le società erano ben strutturate ed esistevano nazioni dotate di lingue e storie comuni.
A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare ed usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali, era stato nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale, e ciò in riconoscimento di quanto gli Ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la guerra mondiale in corso contro la Germania. La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli Ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli Ebrei. Ma nel “Mein Kampf” l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia perfida e ostile, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque ed in ogni situazione.
Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che, sino ad allora, si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa. La redenzione dell’Europa dell’Est dal cancro dello statalismo economico dopo la caduta del Muro di Berlino, ha finito così per coinvolgere anche l’Europa occidentale, che si è dovuta piegare alle stesse forche caudine delle privatizzazioni e della liquidazione del welfare, come se anch’essa fosse parte sconfitta nel dopo-Guerra Fredda. Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di redenzione. La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il FMI uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, ed i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la seconda guerra mondiale.
Nel secondo dopoguerra l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani -, per quanto conosciuto e documentato, è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca IG Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La IG Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank.
La IG Farben di Auschwitz rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale. Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle relocation aziendali, costituisce una macabra ironia della Storia.
Data la logica aziendale che presiedeva ad Auschwitz, risulta persino irrealistico ritenere che un genocidio non vi sia stato, visto che questo era pienamente conseguente alle premesse. Se, grazie alle deportazioni di massa, la materia prima umana veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere, ne derivava, per mere ragioni di budget, la sottoalimentazione dei lavoratori e la eliminazione sistematica degli inabili al lavoro.
Si è detto spesso, retoricamente, che Auschwitz ha rappresentato il “Male Assoluto”, “il Male allo stato puro”, e l’uso di un termine magniloquente ed esoterico come “Olocausto” contribuisce a perpetuare questa metafisica. In realtà non esiste il “Male Assoluto”, ma esiste il male, che consiste nell’asimmetria delle relazioni umane. Se nella relazione economica il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili. Al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi. Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali.
Il nazismo viene di solito fatto passare per un nazionalismo estremo; al contrario, il nazismo anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato. Tutto deve essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale. Chiaramente il contesto tecnologico attuale è molto diverso, quindi i parallelismi con il passato non devono prendere la mano. Rimane comunque il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa.
La nuova frontiera del business è il microcredito, di cui una delle forme suscettibili di maggiore sviluppo è il “migrant banking”. Grazie ai cellulari l’inclusione finanziaria può coinvolgere agevolmente persone senza fissa dimora. L’enorme attenzione dedicata al business del migrant banking è testimoniata da un progetto cofinanziato dall’Unione Europea ed dal Ministero degli Interni italiano, ed attuato in collaborazione con una delle più grandi aziende di servizi finanziari del mondo, la Deloitte, una società di origine svizzera che però oggi ha le sue principali sedi operative a New York e Londra. Ancora una volta le istituzioni pubbliche si piegano agli interessi del lobbying privato per costruire una nuova Auschwitz, stavolta diffusa sul territorio.
Fonte: comidad.org
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