Algeri (2 settembre 1962): alcuni marinai italiani prigionieri nella sede diplomatica francese - foto Jim Howard (United Press International) |
di Gianni Lannes
Ecco una storia sepolta dall'oblìo delle nazioni che merita un approfondimento. Perché? Sono state spezzate 19 vite umane. Al bando le opinioni e le illazioni: espongo alla vostra sensibile attenzione di lettori, alcuni fatti incontrovertibili e documentati.
Il contesto. La rivoluzione algerina ottiene l’indipendenza con gli accordi di Evian (18 marzo 1962), dopo una guerra durata otto anni. I terroristi dell’Organisation armée secrète, non si arrendono all’evidenza, e minacciano di morte particolarmente i dodici giornalisti italiani - ma non gli altri inviati di varie nazionalità - presenti ad Algeri; così quei cronisti, tra cui Sergio Zavoli, lasciano immediatamente quella terra martoriata dal colonialismo. Il giornalista Nicola Caracciolo, corrispondente del quotidiano Il Giorno di proprietà dell’Eni di Enrico Mattei, però, si rifiuta di partire, e sfugge ad un rapimento. L'ambasciatore Brosio protesta invano a Parigi. All'epoca, militari e poliziotti francesi, praticavano sistematicamente la tortura sui prigionieri (alla voce: rapporto Wuillaume del Governatorato generale ispettorato generale dell'amministrazione francese in Algeria).
Nel frattempo navi da guerra francesi, partite dai porti corsi di Ajaccio e di Calvi incrociano nelle acque algerine. La squadra navale del Mediterraneo risulta al comando dell’allora vice ammiraglio André Jubelin (56 anni). Di questa flotta dislocata per un blocco navale tra Marocco, Algeria e Tunisia, con base nel porto algerino di Mers El Kebir, fanno parte la nave ammiraglia Colbert (un incrociatore), la portaerei La Fayette, le navi di scorta Surcouf, Duperré, Maillé, Brezé; ed inoltre, la nave base Gustave Zedé, nonché le navi di scorta rapide Le Vendéen, Le Bourguignon, Le Normand, Le Béarnais; ed infine il sottomarino Artemis.
La nave Hedia (ex Milly, ex Generous) con 20 uomini di equipaggio, di cui 19 italiani, salpa da Casablanca il 10 marzo sotto il comando di Federico Agostinelli (nativo di Fano), transita per Gibilterra, e naviga lungo la costa nordafricana, diretta ufficialmente a Venezia. Il 14 marzo l’agente marittimo Giuseppe Patella riceve un cablo che recita: "1.000 Galita 6512 n807 persistendo passeremo sud Sicilia Hedia”. In altri termini: ore 10, posizione La Galita (un’isoletta davanti alle coste tunisine), 65, numero giri motore (normale), 12 tonnellate di consumo carburante, mare forza 8 da nord, velocità navigazione 7 nodi; se la mareggiata da tramontana persisterà passeremo sottovento.
Mentre il mercantile Hedia viene sequestrato dalla forza navale francese con un atto di autentica pirateria internazionale, il governo italiano, attraverso il ministero degli esteri diffonde la notizia che la nave ha fatto naufragio, e che sono tutti annegati. Ma a tutt’oggi, non c’è alcun prova di questo evento, inventato invece di sana pianta per mettere a tacere i familiari.
In ogni caso, il 2 settembre, ad Algeri, nella sede diplomatica francese, l’inviato di guerra Jim Howard, per conto dell’UPI (United Press International) fotografa un gruppo di prigionieri. La foto viene acquistata dall’Ansa perché tra essi vi sono degli italiani. E infatti, il 14 settembre 1962 Il Gazzettino di Venezia pubblica la telefoto. In tal modo i familiari dopo aver letto il giornale, riconoscono alcuni dei loro cari. Nonostante alcune interrogazioni parlamentari il governo Fanfani (con Segni agli esteri, Andreotti alla difesa e Taviani agli interni) si gira dall’altra parte, pur conoscendo la drammaticità della situazione. Questi 19 cittadini italiani (il più giovane, Giuseppe Uva di Molfetta aveva appena 16 anni) sono prigionieri delle autorità militari di Parigi, ma ufficialmente, contro di loro non è mai stata mossa alcuna accusa ufficiale. Allora, perché sono ostaggi di una nazione alleata? Il primo ministro Amintore Fanfani a porte chiuse dichiara: "Non si può fare la guerra ad uno Stato alleato per salvare la vita a 19 italiani".
In ogni caso, il 2 settembre, ad Algeri, nella sede diplomatica francese, l’inviato di guerra Jim Howard, per conto dell’UPI (United Press International) fotografa un gruppo di prigionieri. La foto viene acquistata dall’Ansa perché tra essi vi sono degli italiani. E infatti, il 14 settembre 1962 Il Gazzettino di Venezia pubblica la telefoto. In tal modo i familiari dopo aver letto il giornale, riconoscono alcuni dei loro cari. Nonostante alcune interrogazioni parlamentari il governo Fanfani (con Segni agli esteri, Andreotti alla difesa e Taviani agli interni) si gira dall’altra parte, pur conoscendo la drammaticità della situazione. Questi 19 cittadini italiani (il più giovane, Giuseppe Uva di Molfetta aveva appena 16 anni) sono prigionieri delle autorità militari di Parigi, ma ufficialmente, contro di loro non è mai stata mossa alcuna accusa ufficiale. Allora, perché sono ostaggi di una nazione alleata? Il primo ministro Amintore Fanfani a porte chiuse dichiara: "Non si può fare la guerra ad uno Stato alleato per salvare la vita a 19 italiani".
Il 22 gennaio 1964 il deputato pugliese Antonio Laforgia indirizza al ministro degli Esteri Saragat l’interrogazione numero 3721. E successivamente, il 18 febbraio dello stesso anno, il sottosegretario di Stato per gli Esteri Lupis, mentendo spudoratamente attesta che la nave è naufragata. In realtà è l'equipaggio è ostaggio del governo francese che accusa implicitamente l’Italia, ovvero Enrico Mattei, di aver aiutato la causa di indipendenza algerina. Per la cronaca, il 27 ottobre del ’62, Mattei viene assassinato mediante un sabotaggio aereo, come ha accertato inequivocabilmente il giudice Vincenzo Calia. Romeo Cesca, padre del marconista Claudio Cesca, presenta una denuncia ai carabinieri di Trieste, ma il comando locale dell’Arma, anziché inoltrare l’atto alla Procura della Repubblica - come la legge (obbligatorietà dell'azione penale, in ossequio ad un misterioso diktat) - gira il procedimento rovente alla prefettura. E così la vicenda viene insabbiata definitivamente dalle istituzioni.
Il 20 ottobre scorso ho indirizzato una lettera pubblica all’ambasciatrice di Francia in Italia, madame Catherine Colonna. Qualche giorno fa, mi ha risposto la sua prima assistente, Mathilde Grammont, assicurandomi almeno in teoria, l’interessamento di Parigi.
Ai giorni nostri, Accursio Graffeo, nipote del marinaio Filippo Graffeo (nativo di Sciacca in Sicilia) non si arrende e scrive al comando generale della Guardia Costiera di Roma (Maricogecap), alle direzioni marittime di Palermo e di Ravenna, per avere ragguagli documentati sulla vicenda dell’Hedia, ma non riceve ancora risposta. E poiché non è stata mai interessata la magistratura, i, signor Graffeo decide il 24 novembre 2014 di segnalare il caso all'autorità giudiziaria, esattamente nei modi stabiliti dalla legge. Quindi si reca alla questura di Bergamo, ma un funzionario gli dice che non può sporgere denuncia, ma deve rivolgersi alla Farnesina. Incredibile: eppure l’azione penale è obbligatoria. Chiunque a conoscenza di un reato, a maggior ragione di una strage su cui aleggia da 52 anni il mistero, anzi incombe la ragione di Stati alleati, ha il dovere di denunciare i fatti di cui è a conoscenza. Inoltre, in materia non c’è prescrizione che tenga. Allora, se non giustizia (terrena) almeno la verità.
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=hedia