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Teora (terremoto 1980) - foto web) |
di Ruben Garbellini
Sino a quando si dovrà sopportare, non solo in Italia ma in tutto il mondo, questo innominabile stupro nei confronti del nostro stesso ambiente di vita? Ma soprattutto, a chi giova un simile comportamento suicida? Questa è la domanda che dovrebbe sorgere spontanea, ogni qual volta si sente parare di un«disastro ecologico», termine che è troppo logoro e abusato per destare più che un semplice moto di corretta indignazione.
Il riferimento all’attualità - ma ormai taciuta, notizia già troppo invecchiata dal 20 aprile?- del pozzo petrolifero nel Golfo del Messico, il fango dell’Ungheria, la nave al largo delle coste sul mare del Nord[1] è la sorgente prima di questo articolo, ma lo sono egualmente i mille e mille abusi perpetrati all’ambiente e al paesaggio di questa nostra Italia.
A chi può essere di utilità devastare senza rimedio l’ambiente in cui vive? Sia i grandi petrolieri speculatori sia i meschini affaristi di casa nostra, non si rendono conto di segare il ramo sul quale essi stessi sono seduti? non hanno quegli stessi devastatori un minimo di essenza sensibile che non sia il loro ventre divoratore, un poco di amore per la bellezza della Natura in sé, di ritegno e senso di responsabilità verso ciò che li circonda, un minimo di concetto dell’onore per quel mondo nel quale essi pure si trovano a vivere?
O forse, per un qualche sortilegio, essi avranno la possibilità di scappare in una dimensione negata ai più, senza curarsi della devastata steppa che si lasciano alle spalle, ben più feroci delle legioni di Cesare e delle orde di Attila?
L’elemento etico si è dunque talmente allontanato agli uomini, che essi son divenuti dei meri contenitori quasi fosse stata loro sottratta l’anima, per cui agiscono come cannibali verso sé stessi? Certo queste considerazioni paiono scontate, già dette e ridette, sentite e inascoltate, puerili sfoghi di una penna utopica; ma è però il primo pensiero che ci si pone non solo vedendo i disastrosi risultati della recente perdita di petrolio, ma pure le continue, vivissime, taciute rapacità perpetrate quotidianamente nei confronti del territorio italiano, e i casi abbondano, basti ricordare l’ultimo disastro del fiume Lambro e del Po. E’ pur vero che la Natura non conosce morale, e che la stessa morale è un’invenzione e possiede una sua genealogia: ma la Natura ha una sua arcana simmetria, e tende a rispettarla con spietata e inflessibile circolarità; (e l’alluvione recente in Veneto lo conferma, altro che no; hanno un bel negare certi politici, ché il trentotto per cento [2] della Pianura Padana è cementificato e sterile).
Pare che coloro i quali abusano, in un incesto ben più tragico e orrendo di quello d’Edipo, della Gran Madre che li nutrì, non possiedano alcun senso di sopravvivenza, quel minimo di animalesca sensibilità al pericolo che dovrebbe farli guizzare, essendo la loro stessa vita in pericolo. E pur tuttavia lascia allibiti lo sfacelo cui è andato incontro l’orbe terraqueo in questi ultimi cinquanta, sessant’anni, quasi una terribile voluttà e volontà masochistica abbia inzuppato le menti di pochi idioti che detenevano le fila del potere: lontanissimi i tempi di un’aristocrazia feroce e sanguinaria sì, ma attenta alla Natura e al Bello a tal punto da creare, solo per citare tre esempi, la Villa Veneta o la Città di Sabbioneta o la Reggia di Caserta.
E per tornare di nuovo all’Italia, che tanto viene promossa politicamente e turisticamente quale «paese della bellezza», anche e non solo in una recente pubblicità televisiva: ma l’avete ben guardata, quella che Modigliani morente pare abbia chiamato «cara Italia»? L’avete ben guardata, questa patria ridotta a discarica di liquami industriali, a pozzanghera di detriti tossici, a cava di cemento, a baraccone e lupanare, a carosello di centri commerciali e capannoni abbandonati, a cavia per architetti megalomani e narcisi, questa terra gloriosa con un paesaggio che non è più, tanto al Nord quanto al Sud disgraziata e coperta di cenci? Ma non nobili cenci, cenci di vergogna. Tuttavia, questa terra che nella sua anima viene quotidianamente insultata e offesa, fu a tal punto madre di bellezza che, benché morente, con quel che resta abbaglia ancora il mondo.
Rinascesse Palladio, rinascesse Goethe, che vedrebbero di ciò che tanto li esaltò, ed esaltò il genio non solo loro? Ma vi pare una nazione degna dei suoi antenati poeti, architetti, artisti quella che è costretta a ricorrere ad istituzioni private sorte in difesa del suo territorio, a sparuti gruppi di difensori dell’ambiente, per reclamare un poco di rispetto? Come è stato possibile che nel corso di nemmeno un secolo una classe politica innominabile abbia permesso che l’Italia divenisse - e parlo qui solo a livello ambientale e paesistico - quella terra desolata che in realtà è? Sino a che punto, questo popolo che ebbe Roma e il Rinascimento, è anestetizzato ora contro il brutto, contro il dolore, contro l’ignominia del non vedere e del non volere, pasciuto di falso benessere e rimpinzato di bisogni indotti, cieco come i ciechi del dipinto di Brueghel di fronte al mondo che li circonda?
E del resto, cosa si può sperare da un popolo per lo più di arricchiti, che ha scordato l’indigenza da cui proviene insieme alla fierezza di essere parte della Natura, un popolo che passa le sue domeniche nei centri commerciali, chiusi gli occhi e il cuore al di là della vetrata su paesaggi di raccordi autostradali e non di raccolti e di boschi? Cosa ci si può aspettare da una patria di morti?