vendredi 22 octobre 2021

"SANTI E CAFFE'" : BENEDETTO XVI È STRUMENTALIZZATO 22 ottobre 21

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Di don Minutella

CONTRA FACTUM NON VALET ARGUMENTUM. LE DIMISSIONI INVALIDE DI BENEDETTO XVI

Ormai è a tutti evidente – nonostante la coltre omertosa di silenzio diffuso – che le dimissioni di Benedetto XVI sono invalide e che, pertanto, rimane, a norma del Diritto, il Romano Pontefice regnante, il più longevo, avendo superato Leone XIII (93 anni), almeno nell'era moderna, perché nel passato sant'Agatone, papa, è stato pontefice fino a 106 di età. Che le dimissioni siano invalide, tutti lo sanno, lo sospettano.
È lo stesso Benedetto XVI che ha provveduto a rendere noto – anche se con un codice d’informazione non immediato – che le dimissioni sono invalide. Il “Codice Ratzinger”, come lo definisce il giornalista Cionci.
Noi da più anni ormai argomentiamo su tutti gli indizi, alcuni dei quali talmente palesi che se fosse vero che Benedetto XVI ha rinunziato validamente, resterebbe l’uomo più subdolo della storia bimillenaria della Chiesa. Dalla talare bianca alla firma del papa regnante (P.P.), dal suo ostinato rimanersene in Vaticano (mentre i pochi papi dimissionari sono andati via e hanno fatto perdere le proprie tracce), alle sparse dichiarazioni solenni, fino alla presa di coscienza di una “Declaratio”, cioè della dichiarazione di dimissioni clamorosamente piena di errori, con l’aggiunta di prove collaterali, la più schiacciante delle quali resta quella della “mafia di San Gallo”, di cui ha parlato con ogni dovizia di particolari il defunto Cardinale Danneels. Le carte giocate da Benedetto XVI sono state molteplici.
Ma c’è, su tutto, come sempre abbiamo ripetuto, una prova inconfutabile del fatto che egli resti, a norma del Diritto, il papa regnante, ed è l’applicazione (che in Diritto è rigorosa) delle norme giuridiche che determinano l’ammissibilità dell’atto straordinario di rinuncia. Nella fattispecie, il canone 332, paragrafo 2, che per l’ennesima volta riportiamo, perché diventi di dominio pubblico.
Il canone 332 paragrafo 2 dice: “Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”. È necessario riportare il testo latino normativo: “si contingat ut Romanus Pontifex MUNERI SUO RENUNTIET, ad validitatem requiritur ut renuntiatio LIBERE FIAT et RITE MANIFESTETUR, non vero ut a quopiam acceptetur”.
Nel testo latino, come potete osservare, abbiamo riportato in caratteri maiuscoli le tre condizioni rigorose nell’applicazione mediante cui le dimissioni sono valide.
Esse sono: 1) MUNERI SUO RENUNTIET; 2) LIBERE FIAT; 3) RITE MANIFESTETUR. Nella traduzione italiana: 1) rinunci al suo ufficio; 2) la rinuncia sia fatta liberamente; 3) venga debitamente manifestata.
L’attenta strategia di Benedetto XVI ha puntato soprattutto sulla prima e sulla terza delle condizioni di ammissibilità della rinuncia, cioè – come è ormai del tutto chiaro – la rinuncia al munus (nel testo latino normativo) e la forma corretta del testo stesso di dimissioni.

Giocando di grande astuzia, il papa, perché rimanesse papa regnante, pur consegnando il trono petrino (assediato dalla massoneria ecclesiastica), ha evitato con cura di inserire, anche una sola volta, la parola “munus”, parlando solo di consegna del ministerium. E così, nella rigorosa applicazione del legislatore canonico, la rinuncia risulta invalida. Non servono i tentativi goffi e maldestri di provare a dimostrare che munus è la stessa cosa che ministerium e che, per esempio, in italiano, ministero implica entrambe le cose. Anzitutto perché non è così per tutte le lingue nazionali. In tedesco, per esempio, hanno un significato diverso, sebbene similare, come in latino. E poi perché il testo legislativo si applica non secondo la traduzione nelle varie lingue, ma secondo il testo ufficiale normativo, che è quello in latino, dove espressamente si dice che occorre che il papa rinunci, appunto, al munus. L’assenza del termine pesa come un macigno, questo lo sanno tutti i canonisti, salvo poi tacerlo. Perché, se non altro, a norma del Diritto, chi dovesse, come abbiamo fatto noi, sollevare dubbi sulla validità dell’applicazione del canone, dovrebbe avere una risposta oggettiva e doverosa da parte dell’esecutore della legge, e non invece condanne e sanzioni penali. Io ho rimediato due scomuniche. Con una disonestà mai vista prima, senza possibilità di spiegare, senza processo, senza difesa e, soprattutto, almeno nel mio caso (non so se è così anche per don Bernasconi), con una strumentalizzazione di vicende precedenti, che nulla hanno a che fare con l’avanzata richiesta di chiarimenti circa l’applicazione del canone 332, paragrafo 2, richiesta che, lo ripeto, il Codice legittima, laddove i dubbi siano ragionevoli.
C’è poi l’altro aspetto, non meno rivelante che Benedetto XVI, studiando a lungo le mosse, ha messo in campo. Ed è il punto 3: RITE MANIFESTETUR, cioè che la rinuncia venga debitamente manifestata. È incredibile vedere come i canonisti tacciano su questa palese contraddizione. La Declaratio dell’11 febbraio 2013 è zeppa di errori formali, che la legislazione respinge, conferendo un carattere di invalidità alla stessa Dichiarazione, e a ragione (per il timore di pressioni o di minacce). Non è neppure richiesto che l’esecutore dell’atto formale sia intenzionalmente portato a fare gli errori. Questo i canonisti lo sanno bene. Anche se non consapevolmente, anzi forse più a ragione (nel timore di una pressione), non è richiesto che gli errori formali siano intenzionali. Se c’è errore formale, se quindi il testo non è RITE MANIFESTETUR, secondo la rigorosa applicazione del canone 332 paragrafo 2, che non m’invento io, le dimissioni sono invalide. La Declaratio di Benedetto XVI presenta errori imperdonabili, soprattutto perché il testo non è un SMS, che si scrive rapidamente e poco attenti a non errare. È un testo ufficiale, solenne, normativo. Come si potrebbe giustificare che un dotto latinista come Ratzinger confonda un nominativo con un dativo e viceversa?
Il punto 2 è a tutti noto: LIBERE FIAT. Il canone 332, paragrafo 2, dice che il papa deve essere libero di dimettersi. Lo scandalo Vatileaks, il trafugamento delle carte personali, il crescente isolamento e, dentro a queste trame, il lavoro in ombra della “mafia di San Gallo”, di cui si ha prova che è esistita veramente, dimostrano con ogni evidenza e, comunque, con prove da confutare, che Benedetto XVI è stato affatto libero di dimettersi.
Ergo, le dimissioni sono invalide, ma anche, ergo: c’è un vergognoso, infame silenzio di canonisti, cardinali, vescovi e preti, che ha condotto la Chiesa in agonia.

Don Minutella