Mar Tirreno (area marina protetta): acque territoriali italiane
DI GIANNI LANNES -
In attesa della catastrofe finale è meglio non far sapere alla popolazione italiana la situazione reale. E’ tutt’altro che teorico il rischio di emergenza nucleare in una dozzina di porti del belpaese – Augusta, Brindisi, Cagliari, Gaeta, Castellammare di Stabia La Spezia, Livorno, Messina, Napoli, Taranto, Trieste, Venezia, Ancona – dove attraccano o transitano navi e sommergibili a propulsione ed armamento atomico
Di Chernobyl ne abbiamo almeno sei in navigazione nei mari italiani, in transito e sosta in 12 città dello Stivale. Immaginate una serie di centrali nucleari di vecchia generazione (stile Unione Sovietica) che senza controllo, vanno a spasso per il Mediterraneo e che, di tanto in tanto, approdano nei porti della Penisola; poi immaginate che queste centrali nucleari siano in movimento e continuo inseguimento, cariche di missili a testata atomica. Non è fantascienza, accade realmente. Addirittura, secondo Greenpeace «Tra gli 8 e i 22 reattori a bordo di sottomarini e portaerei delle flotte militari di USA, Francia e Gran Bretagna percorrono ogni giorno il Mediterraneo alla ricerca di nemici ormai immaginari, visitando periodicamente i porti italiani. Il rischio di incidenti al reattore in mare è elevatissimo». Transitano nei mari d’Italia, attraversando i corridoi marittimi più trafficati come lo stretto di Messina, incrociando petroliere, navi con carichi pericolosi e perfino navi da crociera. Per le loro soste scelgono le popolatissime baie ai piedi di due vulcani, l’Etna e il Vesuvio, accanto a depositi di carburante e munizioni, raffinerie e industrie chimiche. Si tratta dei sottomarini a propulsione nucleare della marina militare USA, impianti antiquati. Di sicuro, perché avvistata: c’è anche una portaerei francese, la Charles De Gaulle (anno di immatricolazione: 1989). A cui si aggiungono un’unità britannica, una russa ed una israeliana. Tutte a propulsione nucleare. Sono reattori di vecchia generazione, pre-Chernobyl per intenderci, tutti privi di sistemi di protezione e sicurezza e per di più impegnate in operazioni di guerra su cui vige il massimo segreto militare. Queste unità sono perennemente dedite agli inseguimenti e alla sperimentazione di sofisticate armi a comando remoto. E’ quanto è avvenuto dal 5 febbraio 2011 nelle acque siciliane del Mar Ionio con l’esercitazione aeronavale denominata “Proud Manta 201” a cui hanno partecipato dieci nazioni dell’Alleanza atlantica. Ogni 6 mesi la flotta atlantica statunitense prevede lo schieramento di un gruppo di battaglia nel Mediterraneo, comprensivo di una portaerei, due sottomarini e altre navi da guerra.
Pericoli concreti- «L’emissione di radioattività nei nostri mari, nel Mediterraneo, in particolare nello Jonio è costante anche se viene ben nascosta all’opinione pubblica – spiega il professor Massimo Zucchetti, docente di Impianti nucleari al Politecnico di Torino – Un incendio o il danneggiamento di queste unità navali possono portare a conseguenze disastrose paragonabili agli effetti di Chernobyl. Ci sono numerosi precedenti con i sottomarini russi nel Mar Baltico e nel Mar del Giappone (l’ultimo nel 2008 causato da un’avaria al sistema antincendio) ma anche da noi, in Sardegna, dove nel 2003 si sfiorò il disastro nucleare quando il sottomarino americano Hartford, a propulsione nucleare, s’incagliò nella Secca dei Monaci a poche miglia dalla base di La Maddalena». Il professor Zucchetti non ha dubbi: «Ci raccontano che queste macchine sono molto sofisticate, mentre se si guarda nel dettaglio si vede che la statistica degli incidenti negli ultimi 50 anni è agghiacciante, con dispersione di materiale radioattivo e irraggiamento di personale. E non parlo solo dei sottomarini americani o russi, ma anche inglesi e francesi». Lo scienziato ricorda inoltre come «le normative prevedano intorno ai reattori nucleari un’area in cui non sia presente popolazione civile (“zona di esclusione”), mentre è richiesta, in una fascia esteriore più ampia, una scarsa densità di popolazione per ridurre le dosi collettive in caso di rilasci radioattivi, sia di routine che incidentali. Normalmente, la fascia di rispetto ha un raggio di mille metri e vi sono requisiti di scarsa densità di popolazione per un raggio di non meno di 10 chilometri dall’impianto. Cosa del tutto diversa nel caso dei reattori nucleari a bordo di unità navali militari, dato che molti dei porti si trovano in aree metropolitane densamente popolate e i punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni sono, in alcuni casi, posti a distanze minime dall’abitato». L’atomo bellico incrocia nelle acque tricolori e fa capolino nelle nostre città. Basta scorrere gli avvisi delle Capitanerie di Porto di mezza Italia in riva al mare. I piani di sicurezza in una dozzina di realtà portuali del Belpaese sono ignoti alla popolazione. Il sommergibile americano Scranton è approdato al porto di Augusta il 6 marzo 2011. Nell’almanacco navale edito dallo Stato maggiore della militare italiana è documentato che l’SSN 756 – uno dei 49 esemplari classe “Los Angeles” (fino al 2008 di stanza alla Maddalena), ancora in circolazione nonostante la vetustà - è stato varato nel «1986»: proprio l’anno del disastro di Chernobyl. Augusta, in provincia di Siracusa, è il porto principale per operazioni di rifornimento della VI Flotta USA. Il 4 aprile ad Augusta è giunto un altro sottomarino nucleare. Ecco cosa impone l’ ordinanza (numero 17/2001) della Capitaneria di Porto (rimossa dal sito internet d’ordinanza): «Visto il vigente piano di emergenza e norme per la sosta di unità militari a propulsione non convenzionale nel Porto di Augusta emanato dal Comando Militare Marittimo Autonomo in Sicilia; il comandante del porto ordina: Articolo 1. Il giorno 04/04/2011 è vietato a tutte le unità navali non specificatamente autorizzate di avvicinarsi, transitare o sostare ad una distanza inferiore a 1000 metri dalla unità a propulsione non convenzionale posta alla fonda nel punto di latitudine 37° 10’ 18”N e longitudine 015° 14’ 36”E, nelle acque antistanti il porto di Augusta. Articolo 2. In caso di avverse condimeteo, la suddetta unità sosterà all’interno della rada del porto di Augusta nel punto di fonda Y3 ( latitudine 37° 12’.270N – longitudine 015° 12’.220E). In tal caso, durante le manovre di ingresso/uscita dell’unità militare a propulsione non convenzionale dal porto di Augusta, il traffico mercantile sarà sospeso, ad eccezione di quello adibito all’assistenza dell’ unità in questione. Durante la predetta sosta, inoltre, è fatto divieto assoluto di avvicinarsi/transitare e sostare con qualsiasi mezzo navale non specificatamente autorizzato, ad una distanza inferiore a 1000 metri dalla unità a propulsione non convenzionale. Articolo 3. I contravventori alla presente ordinanza, salvo che il fatto non costituisca reato e salvo le maggiori responsabilità derivanti dall’illecito comportamento, saranno puniti ai sensi degli articoli dal 53 al 67 del Decreto Legge n° 171/2005, se alla condotta di unità da diporto, mentre negli altri casi ai sensi degli articoli 1174 e/o 1231 del Codice della Navigazione. Articolo 4. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di far osservare la presente Ordinanza. Firmato il comandate CV Francesco Frisone». Più recentemente, il capo del circondario marittimo e comandante del porto di Catania, contrammiraglio Domenico De Michele – con ordinanza numero 96/2011 dell’8 settembre 2011- ha reso noto «la zona di mare delimitata dalle seguenti coordinate geografiche (37° 15’ N, 37° 25’ N – 015° 25’ E, 015° 55’E) sarà interessata da esercitazioni militari con la presenza di sommergibile immerso: dalle ore 24:00 del 15/09/2011 alle ore 01:00 di giorno 17/09/2011. ORDINA. Articolo 1. La zona di mare territoriale di giurisdizione di questo Circondario marittimo, ricadente all’interno dell’area delimitata dalla suddette cordonata geografiche, nei periodi sopra citati, è interdetta alla navigazione marittima, all’ancoraggio, alla pesca e mestieri affini. Le unità in transito devono mantenersi ad almeno 0,5 miglia di distanza dall’area interessata dalle esercitazioni, nonché prestare la massima attenzione alle segnalazioni eventualmente trasmesse dalle unità militari presenti». Anche realtà minori non risultano trascurate.
Sicurezza zero – Le unità possono misurare anche 170 metri e pesare 18 mila tonnellate. Centrali nucleari galleggianti che a differenza di quelle omologhe terrestri, non hanno le pesanti schermature di sicurezza. L’Italia pur avendo respinto con ben due referendum il nucleare è comunque sottoposto ai rischi di incidenti a causa delle servitù militari. Gli Stati uniti d’America, invece, dal 2001, con le nuove leggi antiterrorismo hanno deciso che i sommergibili nucleari devono mantenersi ben lontani dalle coste. Da noi è previsto, consentito ed attuato in base ad accordi segreti mai ratificati dal Parlamento. Che succede in caso di esplosione atomica? «Per la definizione delle misure operative è stato ipotizzato il massimo incidente credibile consistente nella rottura del circuito primario del reattore con perdita di refrigerante, conseguente fusione del “nocciolo” e fuoriuscita dei prodotti di fissione. La nube radioattiva che fuoriesce dall’unità sinistrata, comporta dose per irraggiamento interno per inalazione (…) il personale solo contaminato viene fatto passare nel locale 2 nel quale viene controllato e quindi fatto passare nello spogliatoio. Gli abiti contaminati sono depositati negli appositi contenitori (…) se la contaminazione ha avuto esito positivo (…) il decontaminato si riveste ed esce dalla Stazione». Non è la sceneggiatura di Silkwood o di Sindrome cinese, e nemmeno lo scenario di Chernobyl, o Three Miles Islands o Fukushima, almeno per ora, ma le indicazioni che emergono dal Piano di emergenza per le navi militari a propulsione nucleare in sosta nella base della Spezia. Il documento della Marina Militare Italiana, pubblicato però dai Verdi in barba al segreto, che reca la dicitura “riservato” e la data del 22 ottobre del 1999, rinnova un’edizione precedente elaborata nel ‘74 e disegna un quadro inquietante agli occhi di chi è convinto che la svolta antinucleare italiana, sancita da due referendum anti-atomo abbia eliminato questo genere di rischi. Questo documento della Marina Militare parla chiaro: il porto di La Spezia ha anche il compito di ospitare navi militari a propulsione nucleare, come i «sommergibili dotati di reattore nucleare di potenza unitaria sino a 60 MW» o «unità di superficie dotate di reattore nucleare di potenza unitaria sino a 130 MW», delle quali si prospetta nei dettagli l’ormeggio, la sosta e il loro possibile danneggiamento, con eventuale fuoriuscita di «prodotti di fissione». Viene da chiedersi quali garanzie abbiano i liguri, i bagnanti occasionali, i turisti domenicali e, dulcis in fundo, i residenti. Una domanda da girare alla Protezione Civile e all’Ispra (l’agenzia nazionale per la protezione ambientale). Con un conforto e una sorpresa. Il conforto è che sono al corrente della situazione. La sorpresa è che la lista dei porti dove è previsto l’ormeggio di unità a propulsione e spesso ad armamento nucleare si allunga ad almeno altri 11 siti. Attenzione al punto 8. Il protocollo della Marina prevede diversi tipi di incidente tra cui quello, il più grave, che comporta «un pericolo immediato per la popolazione locale e nel quale siano coinvolte persone in tale numero che le operazioni di bonifica o di salvataggio risultino seriamente ostacolate o in cui dette persone corrano pericolo di contaminazione». Ma la preoccupazione degli uomini in divisa, scrupolosa per il personale interno, fa acqua proprio quando deve entrare nel merito di salvaguardia della popolazione civile. Solo dopo aver allertato la struttura militare nazionale e locale, dal capo di stato maggiore (Csm) alla locale Compagnia di carabinieri, viene “informato” il prefetto e il comando dei Vigili del Fuoco. E solo in seguito ad autorizzazione del Csm, si provvede ad “allertare” la Prefettura, confermando la notizia di “incidente nucleare”. Insomma, una bella trafila, augurandosi che non capiti il peggio come in Giappone. D’altro canto, il documento specifica in prima pagina di essere solo «a integrazione delle competenze delle Autorità civili». Così, una volta venuta a conoscenza dell’incidente, la solerte autorità militare fa partire il “suo” piano di emergenza. Viene dichiarato chiuso il porto, dirottate le altre unità militari diretta a La Spezia e sgomberato il personale civile e militare da tutti i comandi all’interno della base. E solo, allora, non certo prima, al punto 8 del protocollo operativo che un ufficiale viene inviato al Centro di coordinamento costituito presso la Prefettura. E solo al punto 10 si fa menzione del «concorso per la costituzione del Centro di Raccolta per la decontaminazione della popolazione organizzato dalla Usl n. 5 (…)», concorso che consiste nel «mantenere a disposizione del Prefetto il personale medico, le strutture sanitarie, i tecnici» militari a supporto dell’azione di competenza della Usl. Al punto 12, il comando militare «mantiene i collegamenti con le unità civili alle quali fornisce nei limiti delle proprie possibilità il proprio concorso», che si risolve nella fornitura di una ventina di automezzi per la distribuzione di viveri secchi e il trasporto di alimenti e vestiario approvvigionati dalla Prefettura. Questi ospiti all’uranio e al plutonio non sono roba italiana, sia chiaro. Si tratta solo di unità straniere, perché l’Italia non ha tali mezzi (Inghilterra, Francia, USA, ed Israele in base all’ultimo Memorandum) ospitate in base agli accordi bilaterali con gli Stati uniti o in ambito NATO. Nel documento di “sicurezza” vengono citate le modalità «per la sosta di unità militari straniere a propulsione nucleare nella basi della marina militare». E’ scontato che la Marina ha l’obbligo di avvisare quando le unità entrano nel porto e quando lo lasciano e, ancor più, è tenuta a comunicare gli incidenti che possano avere ripercussioni sui civili. Ma poiché la storia militare non è delle più trasparenti e poiché la coltre di segretezza in materia diviene impenetrabile, è lecito chiedersi quale sia il sistema civile di monitoraggio per verificare eventuali incidenti a unità a propulsione nucleare o che trasportino materiale fissile. Qui incombe il segreto militare. I rilevamenti vengono effettuati dal Cisam attraverso un sistema di campionatura annuale che poi richiede analisi di laboratorio. Non è un sistema in tempo reale e non è dunque in grado di svelare fughe radioattive. Ma se accade qualcosa nel Tirreno o nell’Adriatico e nello Jonio: acqua in bocca. Nel Piano di emergenza militare, la parte sulle «norme standard per la sosta di unità militari straniere a propulsione nucleare nelle basi della marina militare» spiega testualmente che «nessun rifiuto radioattivo inquinante né rifiuto di altro genere dovranno essere scaricati in mare, sia in porto sia nelle acque territoriali italiane». Raccomandazioni sulle quali l’autorità civile non ha nessuna possibilità di verifica. Per i militari gli incidenti possono essere di tre tipi: alfa, se comporti la contaminazione di un’area non abitata; bravo, se minacci un’area abitata; charlie, se comporti un pericolo immediato per la popolazione locale e «nel quale siano coinvolte persone in tale numero che le operazioni di bonifica o di salvataggio risultino seriamente ostacolate, o in cui dette persone corrano pericolo di contaminazione». Esiste poi un meccanismo cifrato per segnalare un eventuale incidente. Per cui un incendio con possibilità di danni al reattore nucleare sarà indicato con “calore”, un sabotaggio con “congegno”, la rottura del circuito primario con conseguente fusione del nocciolo con “caduto”, un incidente di un altro tipo con “comune”. E ancora, con “falce” saranno indicati i morti, con “fievole” i feriti, con “fulmine” il personale contaminato, con “fuga” il personale da sgomberare e con “fungo” la dispersione di sostanze radioattive. Il piano di emergenza di La Spezia fa accapponare la pelle. A fare le ispezioni sono gli stessi militari. Anche le procedure sono improbabili. Il piano dice che nell’arco di un’ora dall’incidente un rimorchiatore deve portare il sommergibile al largo. Solo in questo caso la contaminazione non sarà ingente ma comunque rilevante, al punto da far avviare le procedure di evacuazione della città e di proibire alcuni alimenti. Ma se confrontiamo queste norme con la strage del traghetto Moby Prince (10 aprile 1991: 140 morti), dove la nave ha bruciato per 24 ore prima che si capisse cosa fare, o di Chernobyl, dove l’emergenza è iniziata dopo 36 ore, com’è possibile che nella frazione di un’ora le autorità comprendano militari cosa fare. «L’autorità civile deve dotarsi di proprie reti di monitoraggio – insiste l’esperto Zucchetti – specie per rilevare il rilascio di materiale radioattivo nelle acque e poter così dare l’allarme, attivando le procedure di emergenza; perché non possiamo accettare il segreto militare. La presenza di navi militari a propulsione nucleare non è ammissibile in porti situati in zone con presenza di popolazione nel raggio di qualche chilometro. E nessuno degli attuali «porti nucleari» italiani ha questi requisiti». Sul rischio di contaminazione radioattiva causato da unità navali a propulsione nucleare si era già pronunciata, ma solo in un’unica occasione, la massima autorità militare della Marina italiana. Infatti al quotidiano Il Corriere del Giorno (31 ottobre 2000) l’ammiraglio Umberto Guarnieri, all’epoca capo di stato maggiore, aveva dichiarato: «I piani di emergenza esistono perché non si poteva non farli, ma i rischi sono bassissimi ed in caso di incidente riguarderebbero solo il personale di bordo. L’unico provvedimento utile in una simile ipotesi sarebbe quello di trasportare al largo l’unità interessata». A parere di Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, «La dichiarazione dell’ammiraglio Guarnieri non risponde a verità ed è smentita dallo stesso piano di emergenza nucleare che la Marina militare ha elaborato per Taranto». Nel piano di emergenza nucleare si legge, infatti: «Interventi di secondo livello: accertata la presenza di livelli significativi di radioattività al di fuori della zona di esclusione prevista attorno al punto di ormeggio, si attueranno i seguenti interventi: 1) eventuale allontanamento dalla zona potenzialmente pericolosa della popolazione residente e di passaggio; 2) istituzione di posti di controllo sanitario, di decontaminazione e di assistenza sanitaria; 3) misurazione della contaminazione; 4) regolazione del traffico; 5) richiesta del Task Group. Interventi di terzo livello: qualora, in relazione all’estensione della zona contaminata, si renda impossibile il rientro nei luoghi di provenienza della popolazione sfollata entro 24 ore, saranno attuati i seguenti interventi: 1) adozione dei provvedimenti di profilassi alimentare; 2) sistemazione degli sfollati presso alberghi ed edifici scolastici; 3) distribuzione di viveri, acqua e vestiario; 4) raccolta dei materiali contaminati». La popolazione contaminata – si legge chiaramente – verrebbe quindi sfollata. Il piano di emergenza nucleare prende in considerazione la possibile contaminazione radioattiva dei bambini e vi si legge testualmente. «Le dosi alla tiroide dei bambini superano, entro 2 ore dall’inizio del rilascio, il relativo livello di riferimento per distanze (variabili con la potenza) comprese tra 300 metri ed 1 chilometro; per tempi lunghi, detto livello risulta superato fino a distanze (variabili con la potenza) comprese tra 5 km e 20 km». Dalle striminzite pagine dei piani di emergenza – obsoleti, inadeguati e sconosciuti alla popolazione – che sono state diffuse, a La Spezia occasionalmente e a Taranto su richiesta di Peacelink, si è venuti a conoscenza di scenari apocalittici, ma sui quali le autorità competenti non sono informate sottostimando i rischi. Indipendentemente dai possibili incidenti, il sistema di propulsione dei sottomarini rilascia nel mare dei radionuclidi che aumentano col tempo e sono rilevabili sia nell’acqua che nei sedimenti marini. Il valore della loro presenza è spesso ritenuto “al di sotto della soglia”. E’ però ben difficile stabilire un limite al di sotto della quale ci si può ritenere tranquilli. In merito alla misurazione dell’inquinamento, va segnalata una grave carenza metodologica. L’approccio alla valutazione del rischio ambientale resta fortemente riduzionista, basandosi solo sulla presenza dei radionuclidi nell’acqua o nei sedimenti. Ma dunque cos’accadrebbe in caso di fusione del nocciolo? Che scenario potrebbe verificarsi? Nei due piani di emergenza nucleare noti si parla del Cnen, un ente per l’energia nucleare che non esiste più da una ventina di anni. E si valuta il Massimo Incidente Credibile.
Il parere del fisico Antonino Drago – «Questa eventualità provocherebbe un possibile cataclisma tipo maremoto, dovuto allo sfondamento dello scafo da parte del nocciolo che fonde o evapora a milioni di gradi fondendo anche tutto ciò che incontra; si leverebbe una nube radioattiva che spazzerebbe larghe zone seminando morte, provocando un inquinamento del mare in proporzioni inimmaginabili, essendo il Mediterraneo praticamente chiuso; e quindi avremmo un inquinamento dei pesci e in definitiva, attraverso le piogge, dell’acqua potabile e dei prodotti agricoli. Si parla di “massimo incidente credibile”, così come faceva il Cnen allora; invece oggi nella letteratura internazionale si parla di “massimo incidente ipotizzabile”. E’ evidente che il “credibile” è in relazione a quello che credevano possibile i membri del Cnen, che ancora non avevano conosciuto e sperimentato l’incidente per fusione del nocciolo avvenuto a Chernobyl. Tutto dipende quindi dall’incidente che si ipotizza. Ma gli esperti del Cnen di allora non avevano considerato che se avviene la fusione del nocciolo, il vessel fonde, la massa delle barre e dei materiali fusi sprofonda facendo un buco in qualsiasi cosa, compreso il terreno roccioso; figurarsi il fondo di una nave. Inoltre, non si tiene conto del panico che nascerebbe tra la gente, né della probabilissima incapacità della nave ad allontanarsi, perché diventata vascello di fuoco e sprofondata nelle acque. Si tratta di una cosa all’italiana. Diffonderlo dopo che è accaduto l’incidente di Chernobyl rivela tutta l’inadeguatezza di quelli che hanno scritto questo piano».
I sottomarini nucleari che approdano in Italia rilasciano nel mare inquinanti radioattivi. Le sostanze ionizzanti vengono bio-concentrate dalla fauna e dalla flora marina ed entrano nel ciclo alimentare umano. Nelle alghe della Maddalena è stata trovata una rilevante presenza di emettitori alfa. Ordinario di Fisica alla sapienza di Roma, Gianni Mattioli, un padre del primo referendum antinucleare, con un passato di Ministro della Repubblica, ma soprattutto uomo di scienza, non fa sconti. Poche dosi bastano: l’atomo uccide. Non esistono limiti di natura biologica, se non Mac zero. Infatti: «Radionuclidi vengono rilasciati nell’atmosfera e nell’acqua marina e danno inizio così a catene alimentari. Dosi piccole e piccolissime di radioattività sono poi sufficienti ad innescare processi di mutagenesi, che sono punto di partenza, ad esempio, del cancro e della leucemia. Si tratta di fenomeni ben noti da decenni ai biologi, tanto che nella comunità scientifica non si discute se vi sia o no rischio, su ciò vi è la certezza, ma sulla quantità di individui colpiti di fronte ad un’epidemiologia difficile. Basse e bassissime dosi di radiazioni ionizzanti (microdosi) possono avere come effetto di danneggiare il DNA cellulare, cioè la macromolecola che contiene l’informazione genetica trasmessa nella riproduzione delle cellule. Esistono evidenze assai stringenti della correlazione tra mutagenesi ed insorgenza di tumori o, più in generale, di indebolimento delle difese della cellula stessa. Si tratta di meccanismi che possono avere un lungo periodo di latenza prima di manifestarsi. Riprova della crescente preoccupazione sugli effetti delle basse dosi di radiazioni è l’ordinanza dell’Epa (ente governativo USA per la protezione dell’ambiente, ndr) che riduce di ben volte i limite di dose da attività che implichino esposizione a radiazione per la popolazione».
Italia fuorilegge - Per tutti gli approdi nucleari devono essere predisposti gli opportuni piani di emergenza esterna che obbligatoriamente devono essere comunicati alla popolazione. Al momento invece in Italia non è possibile per i cittadini essere informati (in violazione dell’articolo 129 del Decreto legislativo 230/1995) perché questi piani vengono classificati come “segreti”. Laddove i piani sono stati predisposti (con grande ritardo) come nel caso di Trieste, si scopre con stupore (sono occorsi anni per realizzarli) l’inconsistenza degli stessi: in caso di emergenza reale è davvero angosciante pensare che la vita di decine di migliaia di persone dipenderebbe da questi pezzi di carta contenenti disposizioni inattuabili. E proprio per la continuità di questi atteggiamenti antidemocratici posti in essere a danno della collettività e in aperta violazione della legislazione comunitaria, l’Italia è stata deferita nel giugno del 2006 alla Corte di Giustizia Europea. Le violazioni riguardano le direttive 96/29 e 89/618/ Euratom. Nelle motivazioni del deferimento si evidenzia: «La Commissione europea ha deciso di adire la Corte di giustizia a causa della non conformità della legislazione italiana con le norme Euratom riguardanti la predisposizione dei piani di emergenza e l’informazione preliminare da fornire obbligatoriamente alla popolazione in caso di emergenza radiologica. L’esistenza di una normativa nazionale completa e trasparente è un presupposto essenziale se si vuole garantire un livello elevato di protezione della popolazione dagli effetti delle radiazioni ionizzanti. Specie per quanto riguarda la preparazione alle emergenze radioattive, l’informazione preliminare dei cittadini è di capitale importanza per ridurre al minimo le conseguenze sanitarie in caso d’incidente radiologico».